Michele Maltauro
Nell’anno in cui viene pubblicato il primo romanzo di Ladislav Fuks, Pan Theodor Mundstock (“Il signor Theodor Mundstock”, tradotto da Francesco Brignole, Torino, Einaudi, 1997), l’autore compie i quarant’anni. Prima del 1963, l’anno in questione, egli lavora principalmente nella Památková péče v Česku (Sovraintendenza storica ceca): per un periodo al castello di Kynžvart – la sua primissima e curiosa pubblicazione è infatti una guida del 1958, ad esso dedicata –, poi alla Galleria Nazionale di Praga. L’opera fa cadere questa sua specie di anonimato: presto riscuote intorno a sé un grande interesse e segna l’inizio di quello che sarà considerato il periodo più significativo della produzione di Fuks, consacrato quasi interamente a un filone ben ritagliato della letteratura ceca. Vale a dire il tema della Shoah.
Per uno scrittore non ebreo di nascita né convertito, appare tuttora curiosa la scelta di un genere così specifico, circoscritto ancor più settorialmente all’oppressione ebraica cecoslovacca fuori e prima del campo di concentramento. Parte della critica la associa a dati biografici che sembrerebbero trovare in questo focus tematico una maschera letteraria, nella fattispecie ritiene che Fuks, in quanto omosessuale, sia portato a identificarsi con l’ebreo oppresso, la vittima dell’obbrobrio storico. Non bisogna però dimenticare, come sottolinea Alessandro Catalano nella postfazione alla riedizione del 2018 de Il bruciacadaveri (Spalovač mrtvol, Praga, Československý spisovatel, 1967), che la frequentazione del tema è all’epoca assidua nella letteratura ceca e che Fuks non è nemmeno l’unico scrittore non ebreo a occuparsene, citando come esempio la raccolta di racconti Sedmiramenný svícen (“Il candelabro a sette braccia”, non tradotto in italiano) di Josef Škvorecký del 1964.
Se c’è da riflettere su Fuks e il genere, nella mole di opere della letteratura sulla Shoah, è interessante, piuttosto, collocare l’autore in una linea di anti-tradizione: un’altra direzione rispetto al canone controllato dalla letteratura edificante del dopoguerra in Cecoslovacchia, ma anche rispetto a quello che contemporaneamente si costruisce negli altri stati europei. Prima dei libri di Fuks, almeno due casi cechi sono ascrivibili a questa atipicità. Jiří Weil pubblica, nel 1949, Život s hvězdou (“Una vita con la stella”, Milano, Rizzoli, 1992), dove la figura del protagonista Josef – per molti aspetti un parente, un predecessore di Mundstock – è esplorata nella sua cruda solitudine di scampato per miracolo alla “convocazione” in una Praga svuotata dai propri consanguinei, in bilico costante fra la salita faticosa per la sopravvivenza e il burrone voluttuoso del soccombere. Nel 1958 esce poi Romeo, Julie a tma di Jan Otčenášek (“Romeo, Giulietta e le tenebre”, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1960), romanzo in cui si incontrano Paolo ed Esther, giovane ebrea che lui nasconde in cantina. L’innamoramento vive come una fiammella e si consuma nel buio dell’oscuramento e dello scantinato, con una fine brutale come suggerito dalla tragedia citata nel titolo. Nonostante le esperienze dei predecessori siano notevoli, all’inizio degli anni Sessanta Ladislav Fuks è tuttavia l’autore che, fra i tre, più si staglia per l’originalità della scrittura e della ricerca letteraria, molto apprezzata anche internazionalmente.
Come ricordato in precedenza, Il signor Theodor Mundstock è il primo di una serie di romanzi e racconti che Fuks dedica al tema dell’Olocausto, così come è il primo libro che delinea quella che possiamo chiamare poetica di Fuks o, meglio ancora, metodo Fuks. Un metodo che coinvolge fondamentalmente lingua e struttura.
Chi pronuncia questa parola è però, anzitutto, Mundstock, un ex-impiegato apparentemente qualunque della ditta “Menache Löwy. Canapa, corde e fili”, dall’età anagrafica imprecisabile tra i cinquanta e sessant’anni, celibe ma non scapolo ambìto, e neppure l’ultimo degli ultimi, perché pare che nel suo periodo d’oro frequentasse certi ambienti della borghesia ebraica praghese (tra i cui rappresentanti compare anche un certo Fuchs). Nel protettorato di Boemia e Moravia l’esistenza di Mundstock è un inferno, oppressa dalla paura quotidiana di trovare una lettera di “convocazione” nella cassetta postale. La sua salute psichica è fortemente compromessa: i tarli sono un’ombra di nome Mon, figura (l’ombra) tipica del perturbante e dello sdoppiamento di personalità, e un pennuto, che gli altri riconoscono come piccione, ma egli s’ostina a vedere come gallinella. Sono questi i suoi amici-nemici principali, perché Mudstock trema di fronte alla Praga esterna, rifugge le vecchie conoscenze, esce soltanto per spazzare la polvere come gli impone il suo nuovo lavoro. Le cose cambiano radicalmente quando nasce dentro di lui un appiglio, la sola cosa che può salvarlo: il metodo, appunto. In che cosa consiste, dunque?
“In una colossale ricognizione di tutte le situazioni che avrebbero potuto verificarsi, in metodi minuziosi elaborati in ogni dettaglio per tutte queste situazioni e per qualsiasi eventualità, e in un esercizio pratico straordinariamente caparbio. Nel fatto che coglieva la realtà e meditava sulla realtà eliminandone tutte le fantasie, supposizioni e presunzioni.
In questo consisteva.
Era come se fosse rinato.” (p. 120)
Il metodo è, in altre parole, la preparazione al lager prima che questo luogo dell’orrore diventi realtà. Grazie alle visioni su ciò che ben presto capiterà a lui e già succede a milioni di vittime dell’Olocausto, Mundstock elabora una serie di minute strategie di sopravvivenza. Pensa, per esempio, a quale sia il corretto modo per trasportare una valigia da 50 kg fino al treno della partenza, a come non morire di caldo e fame dentro il convoglio accalcato, a quale sia la posizione più opportuna in cui sostare in mezzo a una fila per evitare le botte. Si abitua al digiuno, a coricarsi su un pancaccio al posto del letto, fa una “prova generale” per un pestaggio e per una fucilazione. Crede insomma di applicare un progetto concreto e disumanizzante a una realtà che fugge ogni razionalità, cercando di reagire nella sua piccola esistenza a quella macchina ben più imponente, ben più sistematica, ben più mostruosa che è stata la Soluzione finale. Quello che il metodo non calcola è però l’eccezione, il caso che incombe e inceppa l’ordigno, come scoprirà il protagonista, suo malgrado, nella fine grottesca del romanzo.
I personaggi fuksiani sono lugubri specchi infranti. Personalità dalle mille schegge di vetro che si producono intorno a una frattura della loro esistenza. Mundstock, infatti, non è solo un innocente in un’epoca crudele, ma anche il bugiardo che s’inventa le fandonie dalla famiglia Štern parlando di un’immediata liberazione della Cecoslovacchia, quello che per strada incontra sempre e casualmente loschi figuri, il paziente bisognoso di certe pastiglie per controllarsi, l’amico di famiglia che ama paternamente, ma ambiguamente, Šimon Štern, ragazzino efebico dagli occhi neri. Proprio il principio di frammentazione è, secondo Thomas G. Winner, uno dei tratti distintivi dell’opera di Fuks, a tutti i suoi livelli.
Winner sosta soprattutto sulla lingua, una delle cifre assolute del metodo Fuks, che si ritrova in tutte le opere degli anni Sessanta. Nel caso in questione, la narrazione avviene alla terza persona, ma è impossibile stabilire un confine tra il dato oggettivo della realtà e la visione soggettiva di Mundstock, così come è impossibile accorgersi immediatamente dell’incombenza, nella scrittura, del discorso indiretto. Esso è sperimentato in tutte le sue gradazioni, fino al famoso erlebte Rede. Altri elementi che amplificano questa stratificazione narratologica, creando tensione nel lettore, sono inquietanti aposiopesi che lasciano sospese le frasi e, aggiungiamo noi, l’utilizzo in alcuni casi di articoli indeterminativi e particolari attributi. A esempio di ciò, citiamo un passaggio dalle immagini fortemente espressioniste, in cui la descrizione di un dialogo acceso tra il protagonista e il macellaio produce un effetto altamente straniante:
“Sul banco cascano davanti al bruto, ora paonazzo, due incisivi anteriori. E poi quella bocca semiaperta e gli occhi fissi, immobili sul collo del bruto, sulla pelle nuda proprio nel punto in cui si annoda la cravatta…
«Cristo!» grida il macellaio e il rossore sparisce di colpo dalla sua faccia, «signor Mundstock, che cos’ha combinato? È tremendo, per caso è ferito? Non le esce sangue? Che cosa è successo?»
In piedi dall’altra parte del banco c’è un signore che indossa un vecchio cappotto liso con la stella gialla degli ebrei, garbato, gentile e cortese […].” (p. 148)
La scena descrive il trucco che Mundstock intende adottare nel caso in cui una guardia lo picchi, sfruttando le protesi dentarie per sputarle al momento opportuno e soddisfare così la crudeltà dell’aguzzino, illuso di aver rotto un dente alla vittima. La verifica dello stratagemma avviene a spese del povero macellaio, di conseguenza le scelte linguistiche rendono perfettamente al lettore, informato delle intenzioni di Mundstock, uno sguardo scisso: da una parte quello del protagonista, perso nella sua fantasia, “dall’altra parte del banco” quello del commerciante, che vede impazzire un cliente.
Il metodo Fuks è ben radicato nell’intera struttura romanzesca, che si potrebbe visualizzare addirittura come un edificio. I moduli architettonici sono singoli frammenti, si specificano in elementi ritornanti (una lampada con la caravella di Colombo, la nebbia associata alle allucinazioni, l’ossessione per le cifre derivate dal tre, i colori legati a certi personaggi, per esempio) e in dicotomie (luce-buio, interno-esterno, polvere-stelle, e così via). Parlando del terzo romanzo di Fuks, il già citato Il bruciacadaveri, Catalano scrive:
“Fuks riesce a dar vita a una forma narrativa del tutto peculiare, grazie anche a una rigorosa struttura simmetrica disseminata di criptocitazioni, o più esattamente motivi “metamorfici”, che, presentandosi ripetutamente come se ci si muovesse lungo cerchi concentrici (Fuks stesso parlava di “risonanza” dei singoli elementi), anticipano a livello simbolico l’esito finale.” (p. 206)
Il signor Theodor Mundstock si costruisce in maniera pressoché identica. Nessuno di tali elementi viene lasciato irrelato o, in caso contrario, questo isolamento appare inquietante. Le simmetrie si possono verificare con l’indice alla mano: 21 sono i capitoli del romanzo, di cui il decimo e l’undicesimo rappresentano il momento spartiacque in cui Mundstock ha la rivelazione del metodo. Questi capitoli mediani scindono due personalità del protagonista, cioè quella dell’uomo terrorizzato, passivo, tormentato da ombre e gallinelle (capitoli 1-9) da quella dell’uomo pratico, attivo, che domina la sua paura con un sistema creduto infallibile (capitoli 12-20), ma che fallisce miseramente al capitolo 21. La struttura è interamente pervasa da geminazioni, dalle più macroscopiche – come i tentativi di suicidio ai capitoli 6 e 18 o le visite agli Štern dei capitoli 4 e 15 – alle più microscopiche, quali gli echi di un particolare aggettivo da un capo all’altro del libro. La lavorazione sull’edificio romanzesco è labirintica quanto la mente ossessiva del suo protagonista.
Il metodo Mundstock illude su come si possa sopravvivere, il metodo Fuks stratifica temi, che sembrano ben congegnati, ma che spesso si incrinano e infrangono. Fra tutti i temi cui si potrebbe accennare in conclusione, uno dei più significativi è quello della salvezza:
“«Il signor Mundstock deve rendersi conto che è ebreo, e non fuggire davanti alla sofferenza e alle proprie responsabilità.»
«Il signor Mundstock deve riuscire a immettersi nella grande storia ebraica…»” (p. 89)
Queste frasi sibilline sono pronunciate dal rabbino presso cui si reca Mundstock al capitolo settimo, Mundstock che sente pesare su di lui più e più volte il peso di essere una sorta di Messia. E si può dire che lo diventi, in un certo qual modo, perché la rivelazione del metodo gli germoglia dentro di venerdì, giorno di Crocifissione e di Rinascita. È però una figura di salvatore alquanto strana e paradossale, che cerca di salvare esclusivamente se stesso e che, se deve pagare per un popolo intero, paga in maniera grottesca, investito da una camionetta mentre sta per raggiungere il treno per il campo di concentramento, un altro venerdì mattina. È un salvatore, infondo, dell’identico tenore di Karel Kopfrkingl, l’antieroe de Il bruciacadaveri che si crede il predestinato a cremare i corpi degli ebrei, per liberare le loro anime infelici dai fardelli dei corpi. Per dirla alla Ripellino, un “dispensiere di eutanasia”, un “becchino-filantropo”. La salvezza dei due è della stessa matrice, ma li separa un banco da macelleria, che stabilisce i ruoli di vittima e di carnefice. Forse sono entrambi solo delle vittime, forse sono gli unici Messia che quell’epoca mostruosa poteva produrre.
Bibliografia:
Alessandro Catalano, I nomi non significano nulla. “Il bruciacadaveri” di Ladislav Fuks come metafora collettiva della patologia del nazismo, in Ladislav Fuks, Il bruciacadaveri, trad. Alessandro De Vito, Torino, Miraggi, 2018, pp. 203-217.
Angelo Maria Ripellino, Fuksiana, in Ladislav Fuks, Il bruciacadaveri, trad. Ela Ripellino, Torino, Einaudi, 1972, pp. VII-XIII.
Jan Otčenášek, Romeo, Julie a tma, Praga, Československý spisovatel, 1958 (Romeo, Giulietta e le tenebre, trad. Ela Ripellino Hlochová, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1960).
Jiří Weil, Život s hvězdou, Praga, ELK – Evropský literární klub, 1949 (Una vita con la stella, Milano, Rizzoli, 1992).
Josef Škvorecký, Sedmiramenný svícen, Praga, Naše vojsko, 1964.
Ladislav Fuks, Pan Theodor Mundstock, Praga, Československý spisovatel, 1963 (Il signor Theodor Mundstock, trad. Francesco Brignole, Torino, Einaudi, 1997).
Ladislav Fuks, Spalovač mrtvol, Praga, Československý spisovatel, 1967 (Il bruciacadaveri, cit.).
Thomas G. Winner, Czech Avant-Gard Prose of the Sixties, in “Mosaic: An Interdisciplinary Critic Journal”, Vol. 6, No. 4 (Summer 1973), pp. 107-119.
Apparato iconografico:
Immagine in evidenza: https://www.denik.cz/ostatni_kultura/pred-20-lety-zemrel-autor-spalovace-mrtvol-20140819.html;
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