Bosco misto: le ombre dell’albero

Bianca Dal Bo

Mi sembra già di sentirli, tutti, ma cos’è mai, un tronco, foglie, radici, nella corteccia minuscoli coleotteri e una chioma decorosamente cresciuta, nel caso migliore, ebbene? Mi sembra di sentirli, non hai niente di meglio per trasfigurare lo sguardo come una capra affamata alla vista di un bel ciuffo d’erba grassa? […] O intendi la famosa ombra che getta? Quando si parla di ombre, si pensa stranamente subito agli alberi, sebbene gli edifici o gli altiforni mandino ombre di gran lunga più ampie. Ti riferisci all’ombra? Niente di questo, dico allora, e smettetela pure di indovinare, non ci arrivereste comunque. Non mi riferisco a niente di tutto questo, anche se il valore del combustibile non è da disprezzare; intendo semplicemente un albero. E ho le mie ragioni. In primo luogo, nella mia vita gli alberi hanno avuto un certo ruolo, che forse sopravvaluto, ma ne sono persuaso.” (p.5)

Questo fruscio di pensieri che apre il romanzo d’esordio di Becker non ne lascia certo intendere il tema e, se anche lo facesse, non sembrerebbe comunque una partenza prevedibile. Gentile, modesto e ironico, lontano da qualsiasi sentimentalismo, da ogni noia e aridità, Jakob il bugiardo è la storia, anzi, una storia ambientata in un ghetto durante la Seconda Guerra Mondiale. Non è una dettagliata testimonianza pulita da qualsiasi virgola letteraria e nemmeno quell’estrema esagerazione di pathos che rischia di cadere nella banalizzazione dell’evento. Jakob der Lügner (“Jakob il bugiardo”, 1969) è piuttosto come un albero visto a diverse ore del giorno: proietta varie e sfumate ombre a seconda dei punti di vista da cui lo si sfoglia. Se non ci si accontenta della superficie, la mera fotografia già scattata, ma si guarda attentamente negli spiragli vuoti tra un atto e l’altro – il romanzo viene inizialmente concepito dall’autore come film, poi realizzato solo nel 1999 – se ne scoprono con sorpresa i riflessi, oscillanti e dunque mai del tutto definibili. Ed è forse proprio per questa sua struttura inafferrabile che anche la critica – pur sempre dandone un giudizio positivo – ha avanzato nei confronti di quest’opera di Becker interpretazioni molto diverse: alcuni ne hanno visto un testo antifascista tipico della letteratura socialista, altri un esempio di trasgressione proprio di quel linguaggio comunista esaltato della DDR, altri ancora, una delle prime voci letterarie ebraiche del secondo dopoguerra.

Come già detto, è Jurek Becker l’ironica e colloquiale penna da cui sfociano le parole sopraccitate. Ebreo polacco e narratore tedesco, nasce a Łódź nel 1937, conosce fin da piccolo la cruda realtà del ghetto e del campo di concentramento. Finita la guerra, si stabilisce con il padre nella Germania orientale, per poi scegliere di trasferirsi al di là del muro, nella più libera Berlino ovest. Trovatosi sin da piccolo in una situazione non scelta, dentro un destino che gli deriva non da un suo personale sentirsi parte di un gruppo, ma dal suo albero genealogico che ha stravolto la direzione della sua esistenza, Jurek Becker appare in questa sua prima opera alla ricerca di un senso da dare alla sua appartenenza al popolo ebraico. Ricerca che non trova fine ancora dieci anni dopo, quando egli scrive nel suo intervento in Mein Judentum (“Il mio ebraismo”, 1978):

Io dedico al problema molto spazio e mi arrabbio, divento polemico e alla fine persino offensivo, perché è già stato deciso così fastidiosamente spesso sulla mia testa “cosa” e “come” sono: tra le altre cose appunto ebreo. Mi sembra come un’occupazione o un ammonimento, un debito da pagare di cui non mi sono mai assunto la responsabilità. E se anche fossi pronto a pagare non saprei con cosa. Come ci si comporta se si è ebrei?” (pp.13-14).

In realtà, se da un lato, nella ricerca di un’autentica identità, sradicato dalla sua Polonia e ostacolato in Germania dall’isolante scalino di una lingua da imparare, Becker conferma il suo ateismo, sottolinea che ad essere ebrei sono stati i suoi nonni e nega l’ebraismo come chiave di lettura della sua vita e delle sue opere, è indubbio che nei suoi libri egli dà voce a una narrazione non priva di sfumature di matrice ebraica.

Per meglio cogliere questo aspetto, è doveroso entrare, seppur brevemente, nella trama del romanzo, che germoglia dai ricordi del narratore che, sopravvissuto all’Olocausto, rievoca per il lettore con benevolenza la storia di un abitante del suo stesso ghetto, Jakob Heym. Questi, ispirato da una notizia sull’avanzata dei russi, udita casualmente da una radio del comando dell’amministrazione tedesca, si finge lui stesso possessore di una radio – un oggetto bandito nel ghetto -, sfociando senza volerlo in una crescente e inarrestabile menzogna, scaturita a fin di bene allo scopo di sostenere il morale e la speranza della gente del ghetto. Nella disperata insensatezza del quotidiano, le persone, ognuna a modo suo, si aggrappano a questo spiraglio di luce e l’umile Jakob ne percepisce valore e importanza, anche se l’illusione durerà poco.

In un intreccio di scene non suddivise da capitoli ma oscillanti in un frusciante unicum tra passato e riflessioni presenti, verità e fantasia, sono lo humor e la finzione le due sorprendenti strategie messe in campo nel romanzo, retaggio della tradizione letteraria ebraica. A tal proposito, il critico tedesco Wolfgang Werth è uno dei primi a sottolineare una possibile connessione tra lo stile narrativo di Becker e il cosiddetto Fabulierkunst dello scrittore ebreo Scholem Aleichem. Il nome di questo autore yiddish viene citato in ben due episodi del libro dallo stesso Jakob che ne evoca ed elogia la vasta immaginazione, proprio quando dà inizio al suo circolo vizioso di bugie. In effetti, l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale di fronte alla drammatica realtà dell’Olocausto: l’autore in primis inventa una storia storpiando un fatto realmente accaduto riferitogli dal padre, mettendo in campo un narratore che, a sua volta, racconta una storia narratagli da Jakob Heym, il bugiardo, prendendosi varie licenze poetiche in mancanza di memoria o per propria semplice e libera volontà; e, come si è detto, la vicenda stessa di Jakob si fonda su una finzione: una radio che non esiste. Questo non cambia di certo l’epilogo, che sa di deportazione e morte. Ma rende più lieve il viaggio, l’errare della vita all’interno di un ghetto, un incerto luogo di transito verso la morte che viene reso più sopportabile dalla speranzosa visione di una liberazione, di un futuro. Con l’inizio delle bugie di Jakob i suicidi si riducono al minimo e la sopravvivenza, seppur difficoltosa e precaria, diventa vita e sensata erranza grazie a un semplice uomo che si fa prossimo alla sofferenza sua e dei suoi simili ma che, visto in un’ottica biblica, che magari Becker aborrirebbe, è anche simile a un novello Geremia (29, 28), quando esorta il popolo ebraico a vivere pienamente pur durante l’esilio in Babilonia: “Infatti egli ci ha mandato a dire in Babilonia: Sarà lunga la cosa! Edificate case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti!

Nomen omen. Chi meglio di Jakob potrebbe diffondere speranza in un ghetto di ebrei? Il nome allude biblicamente a Giacobbe, il padre del popolo ebraico, uomo a cui di notte in fuga dai pericoli in uno spazio liminale, attraverso delle visioni appare Dio che lo chiama Israele, nome relazionato alla lotta con Dio. E Jakob Heym, scoperto di notte da una guardia fuori di casa oltre l’orario di coprifuoco, pur non rappresentando assolutamente l’eroe salvatore di un popolo e pur non cambiando la tragica e reale fine del ghetto, ha il coraggio di combattere timidamente con le sue aleatorie armi – le parole – e la sua bugia benevola. Non solo il protagonista sembra portare, dunque, un significato biblico, ma ricorda quasi la figura dello Schlemiel, il fragile e picaresco ometto comune alla letteratura yiddish, la cui debolezza, interpretata come coraggio, fa sì che il lettore si affezioni a lui, alle sue buone intenzioni e al suo senso estremamente umano di responsabilità e colpa.

Seguendo la prospettiva dell’ebraismo, non si può fare a meno di tornare al fruscio di pensieri di partenza, alla radice del discorso: gli alberi. Simbolici, a evocare la speranza, si pensi al lamento di Giobbe Dio mi ha distrutto da una parte all’altra e mi ha lasciato andare e ha sradicato la mia speranza come fosse un albero (Giobbe 19, 10) oPoiché anche per l’albero c’è speranza: se viene tagliato, ancora ributta e i suoi germogli non cessano di crescere (Giobbe 14, 7), ma anche legati all’Albero della Vita della Genesi e all’Albero della Conoscenza (Genesi 2, 17); fisici e “piantati” nei ricordi del narratore, che li usa, inizialmente, come espediente per introdurre la figura di Jakob e il non-luogo del ghetto che li univa, in cui gli alberi erano proibiti, ma anche nel momento di chiusura.

Ma ogni interpretazione qui presentata rimane lontana dal voler mettere in campo ulteriori “occupazioni o ammonimenti” nei confronti dell’autore e del suo romanzo. Ecco che la gente del ghetto, viene restituita non come gruppo di ebrei, ma come intreccio di uomini. La maggior parte dei personaggi non ha nulla a che vedere con l’ebraismo: ad esempio, il dottor Kirschbaum non ha mai nemmeno pensato di poter essere ebreo, e l’avvocato Schmidt, prima della deportazione, era sulla strada giusta per diventare un perfetto nazionalista. Becker presenta gli abitanti del ghetto come una miscela di ingredienti diversi e non come un gruppo coeso a cui dev’essere riservato un trattamento speciale. E spiando infine fuori dalla fessura in un treno nel bel mezzo del tragitto verso la morte, Becker, per voce del narratore, rivela che a tutto preferisce il bosco misto, le chiome variopinte di alberi diversi – le colorate personalità di individui mai riducibili al loro albero genealogico:

Qualcuno sostiene che gli alberi confondono la mia mente, io continuo a starmene lì; talvolta ancora oggi monto su un treno, per un tragitto particolarmente boscoso, a tutto preferisco il bosco misto. Poi sento la voce di Jakob: «Non vuoi dormire finalmente?» «Lasciami ancora un po’» dico io. «Ma non vedi più niente» sento dire. «Invece sì.» Vedo infatti ancora le ombre degli alberi, e dormire non posso, andiamo, dove andiamo.” (p.269)

Chana, Kowalski, Mischa, Rosa, Nuriel, Lina, Jakob Heym, Felix Frankfurter, Isaak Fajngold, Herschel Schtamm, Dr. Kirschbaum. Una possibile storia, di alberi unici con le proprie ombre, dalla quale si vuole rimanere persuasi.

 

Bibliografia:

Bernd Matzkowski, Interpretation zu Jurek BeckerJakob der Lügner“, Hollfeld, C. Bange Verlag, 2001.
Johannes Heinrich Schultz (hrsg.), Mein Judentum, Stuttgart, Kreuz Verlag, 1978.
Jurek Becker, Jakob il bugiardo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2019.

Sitografia:

Emma Woelk, Foreign Stories and National Narratives: Yiddish and Fictionality in Jurek Becker’s Jakob the Liar and Edgar Hilsenrath’s The Nazi and the Barber, Austin, St. Edward’s University, August 2019. *humanities-08-00143-v2.pdf

Grant Henley, Confronting Kulturpolitik: Testimonialism, Narrative Transgression, and Jewish Historiography in Jurek Becker’s Jakob der Lügner (1969), The Gruyter, 2013. [18629156 – Naharaim] Confronting Kulturpolitik_ Testimonialism, Narrative Transgression, and Jewish Historiography in Jurek Becker’s Jakob der Lügner (1969).pdf

Maria Angela Magnani, Jurek Becker, un’esistenza tra ebraismo, letteratura e politica. 4 Parallelamente ai roman (yumpu.com)

Wen Xin, Das mitthematisierte Erzählen bei Jurek Becker, München, Ludwig Maximilians Universität München, 2004. https://edoc.ub.uni-muenchen.de/2266/1/Wen_Xin.pdf

Apparato iconografico:

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