Jacopo Santoro
“L’artista deve amare ciò che gli uomini hanno inventato e inventano di più meraviglioso: la macchina. La macchina sintesi dei maggiori sforzi cerebrali dell’umanità. La macchina equivalente meccanico organico del globo terracqueo. La macchina nuovo corpo vivo quasi umano che moltiplica il nostro. […] Non c’è salvezza dunque fuori dall’estetica della macchina e dal suo splendore geometrico meccanico […]. Questa estetica ha per elementi la forza imbrigliata, la velocità, la luce, la volontà, l’ordine, la disciplina, il metodo, la concisione essenziale e la sintesi, la felice precisione degli ingranaggi, la concorrenza d’energie convergenti in una sola traiettoria.”
Questo scriveva Filippo Tommaso Marinetti in un articolo del 1926, L’estetica della macchina; l’autore del Manifesto del futurismo faceva così eco alle parole espresse tre anni prima da Prampolini, Pannaggi e Paladini nel manifesto L’arte meccanica:
“L’epoca in cui viviamo 一 tipicamente futurista 一 si distinguerà fra tutte nella storia per la divinità che vi impera: la macchina. […] Gli ingranaggi purificano i nostri occhi dalla nebbia dell’indeterminato. […] SENTIAMO MECCANICAMENTE, CI SENTIAMO COSTRUITI IN ACCIAIO, ANCHE NOI MACCHINE, ANCHE NOI MECCANIZZATI!”
Risulta evidente l’entusiasmo con il quale i futuristi celebravano la nuova società meccanizzata sorta in seguito alle rivoluzioni industriali, che sconvolsero la vita sociale e la percezione estetica a inizio Novecento. Ma nello stesso periodo il “futurista siciliano” Ruggero Paolino Vasari (Messina, 1898 – 1968) scriveva L’angoscia delle macchine (le prime edizioni riportano la data 1923), opera prima di una trilogia poi non terminata, dove già dal titolo si intuisce una valutazione opposta della rivoluzione tecnologica, che aveva mostrato i suoi esiti peggiori nel primo conflitto mondiale.
Laureato in giurisprudenza nel 1923 a Roma con Enrico Ferri (fondatore della sociologia criminale italiana) con una tesi su I recidivi e l’idoneità della pena, due anni prima si era visto rifiutare la stessa laurea a Torino, dove la commissione respinse come scabroso il suo lavoro La personalità della prostituta. Dal 1922 Vasari è a Berlino per conto del movimento futurista, dove organizza mostre per promuovere l’avanguardia e dirige la rivista “Der Futurismus”; e forse è proprio questo espatrio culturale e il contatto con gli espressionisti del centro Europa a spiegare la particolarità dell’opera vasariana all’interno del movimento futurista.
L’Angoscia delle macchine vede la luce nel 1923, lo stesso anno in cui l’autore a Berlino assiste alla messinscena di R.U.R., composto da Čapek tre anni prima. Vasari afferma di aver già scritto la sua opera prima di vederlo; non è entusiasta dell’opera del collega ceco, della quale dice:
“Capek ha il merito di avere portato per la prima volta questo tema a teatro. Il nostro secolo meccanico, veloce, non romantico, avrebbe bisogno di eguali sensazioni a teatro. Ma in un simile argomento bisognava essere sintetici, rapidi e soprattutto lirici. Ecco perché per me la commedia di Capek è mancata. Il dialogo è prolisso e in certi punti esaspera. L’azione è molto diluita e ripete spesso le stesse cose; manca assolutamente il lirismo.”
E ancora:
“Se il primo atto ci promette moltissimo, gli altri ci disilludono. L’unica scena che veramente ci impressiona e ci riempie di angoscia, è l’assalto dei Robot alla casa dei loro padroni. In tutto il resto la drammaticità è nulla. Al secondo atto ci sorprende e non poco il vedere il documento bruciato in un volgare caminetto degno dei nostri avi. Nel tempo dell’elettricità una stornatura madornale! Al quarto atto, che è il più fiacco, il vedere passare, dopo l’esperienza del dottore, il Robot Marius con la testa fasciata da bende insanguinate, ci disgusta. Trattandosi di una macchina-uomo, non si può permettere uno strappo così verista e fuori posto.” (in Verdone, 1969, p. 207).
Riconosce però al ceco il merito di aver portato per primo siffatte tematiche a teatro. Nelle sue opere teatrali Vasari cercherà di evitare appunto questi difetti, forse rimaneggiando l’Angoscia che vede una nuova edizione nel 1925. L’opera vasariana però sul palcoscenico arriverà solo nel 1927, con una prima a Parigi che fu accolta molto bene dalla critica.
L’angoscia delle macchine, definita tragedia moderna da Verdone (Maggio 1969, p. 58), sintesi tragica dall’autore, si apre sulla figura dell’Uomo della Cabina che osserva compiaciuto il panorama meccanico di un’utopica civiltà in cui gli uomini hanno rinunciato alle donne, colpevoli di distrarli dalla loro volontà di potenza, e superato i limiti imposti dalla natura grazie alla meccanizzazione del mondo e di loro stessi. Questa nuova stabilità è però minacciata dal ritorno delle donne, che provano a ribadire la loro necessità naturale invadendo con aeronavi la città dei superuomini da cui furono esiliate. Queste vengono però spazzate via e la loro ambasciatrice, Lipa, fatta prigioniera da uno dei tre despoti meccanici, Bacal. Eppure, un dubbio s’insinua nel cuore della nuova società, e in particolare in Tonchir. Costui è l’artefice materiale della nuova società, l’inventore delle macchine che hanno rivoluzionato la società umana. Nel suo laboratorio giunge Lipa che coglie il dubbio già presente in lui e lo esorta a rinnegare quello che lui definisce l’errore di voler essere stato Dio. Tonchir ha un dialogo interiore con la sua anima, che gli compare personificata in tre ombre: una bianca, una rossa e una nera.
“La verità è nelle tenebre. Camminare nelle tenebre per trovare lo spiraglio- e lo spiraglio porta in altre tenebre. Vagare- vagare- e mai si trova. E chi crede di averla trovata non la discerne – perché la verità è Dio.” (p. 26)
Con queste parole l’ombra nera suggella la definitiva crisi del superuomo-inventore Tonchir e sancisce l’inizio del percorso di redenzione che spingerà lo scienziato a far collassare ciò che ha creato per redimere l’errore di aver reso l’uomo schiavo delle macchine nella speranza di renderlo migliore. Il terzo e ultimo atto si svolge nella sala della macchina-cervello adibita, tramite la confluenza in essa delle volontà dei tre despoti, al controllo delle menti della società meccanica. Intorno ad essa riddano i Condannati alle macchine, ultimi della nuova società, a riassumere con la propria danza insieme il fascino e l’orrore dell’abiura dell’umanità per la macchina. Gli altri due despoti provano a far rinsavire Tonchir, cercando di convincerlo che solo andando oltre l’umano si può vincere. Ma ormai la crisi si è trasferita alla sua creazione, che, impazzita, comincia a muovere le macchine senza alcun ordine. Bacal prova a fermarla ma viene fulminato. L’opera si chiude con Tonchir morto ai piedi della sua creatura, che fermandosi immobilizza tutte le persone-macchine da essa dipendenti, mentre le sirene delle macchine intonano un lugubre lamento.
Da questo finale funerario riparte Raun (1932), opera seconda della trilogia. In un mondo simile a quello de L’angoscia delle macchine si svolgono i sei atti che narrano la storia di Volan, architetto incaricato di costruire una ferrigna torre di Babele in onore del despota-grande fratello, l’Uomo Rosso, e della sua compagna, Sacar. La costruzione è resa possibile grazie alla manodopera degli Ergoni, operai meccanizzati schiavi dell’élite. Ma Volan, per scelta forse inconscia, ha progettato la torre in modo che raggiunti settemila metri di altezza crolli. L’ipotesi di doverla ricostruire fa tornare sui suoi passi l’architetto, che si pente della sua hybris e decide di fermare la costruzione per redimere l’umanità tutta. Sacar, che in seguito si definirà la Grande prostituta, prova a convincerlo promettendogli di diventare la sua donna e ricordandogli che ha intrapreso l’opera per strapparla all’Uomo Rosso. Gli Ergoni, vedendo vanificato il loro lavoro, si rivoltano. Volan è però imprigionato e la costruzione demandata all’allievo Sillan che ristabilisce l’ordine.
“Gaudio per la mia anima il vostro grido – si risveglia in voi l’umanità – non siete più macchine! Le passioni stritolate nel groviglio degli ingranaggi – polverizzate dalla prepotenza dei magli – stordite dai denti aguzzi dell’elettricità – non sono del tutto annientate. Ecco che ritornate uomini. Rinasce in voi il sentimento. Volete il sangue! La passione è sangue! (pausa) Ma se il mio sangue potesse fondere la lamina di metallo che riveste i vostri cuori – eccomi: uccidetemi!” (p. 49)
Queste sono le cristologiche parole con cui Volan esorta l’umanità a riscoprire l’anima umana sotto la scorza metallica di cui si è rivestita.
Ad ogni modo, l’architetto viene portato nella prigione elettrica dove un coro tragico cerca di convincerlo a rinunciare ai suoi intenti. Sacar per amore lo libera e lo invita a fuggire lontano dalla città di Raun. Volan fugge, ma prima di farlo ingravida Saib, una delle vergini destinate alla Ginemacchina, apparecchio che decide il ruolo delle donne in base alla necessità della società (lavoro, maternità, piacere). Saib viene interrogata e racconta, in un passo che ricorda l’evangelica concezione di Maria, di aver ricevuto in sogno la visita di un uomo che parlava un’altra lingua. Incolpata di essersi “umanata” con Volan viene allontanata dalla città. L’aereo che doveva trasportarla lontano cade sull’isola in cui Volan è in esilio. Saib prova a convincerlo a restare nell’isola e a ricominciare da lì una vita umana. Ma Volan sa di non poter fuggire da Raun e dai suoi errori. Entrambi, mascherati da piloti, riescono a tornare alla città. Qui l’Uomo Rosso e i grandi rauniani stanno per partire alla conquista di Marte; Volan sabota lo shuttle condannandoli a un peregrinaggio spaziale senza meta. Si salva la sola Sacar che dichiara nuovamente il suo amore a Volan ma, respinta, si suicida: la Grande Prostituta perde così la sfida amorosa con la vergine Saib. Volan viene riconosciuto nuovo capo della società di Raun. L’ultimo atto si svolge in mezzo a una foresta tropicale. In questa, tre uomini, e non macchine, discutono su come sia cambiata la loro vita. Il focus si sposta poi su due giovani che, con la guida di lei che mordicchia lui, riscoprono un amore umano, troppo umano:
“Il tuo alito torrido mi vivifica… fremo tutto… la vista mi si offusca… senti come batte il mio cuore?… pare che scoppi… sciami di vespe assalgono punzecchiano divorano la mia carne irritata… ora non vedo più… È la notte che sparpaglia manciate di lucciole!” (p.92)
Arriva infine Volan che fa esplodere le macchine e mette fine alla storia di Raun.
“Non siete più macchine- non siete più schiavi! Baciate la Terra! È la nostra Grande Madre! (tutti baciano la Terra) Lavorare – soffrire – sperare – amare – odiare – qualche volta gioire – spesso… non comprendersi… siamo uomini!” (p. 93)
L’opera si chiude con questo inno alla natura, al femminile e all’anima umana, che pur nell’incertezza e nelle oscillazioni rende davvero grande l’umanità, al di là di ogni ambizione superomistica.
Le due opere analizzate, oltre a condividere l’ambientazione distopica, sono molto vicine per tematiche trattate e soluzioni stilistiche. Entrambe partono infatti da presupposti tematici futuristi come la misoginia, l’ambizione al superamento evolutivo della “vecchia” umanità, la valorizzazione estetica della nuova tecnologia in grado di andare oltre la natura. Ma la sensibilità di Vasari sembra rodere dall’interno questa narrazione: l’autore è convinto della necessità di un recupero della dimensione trascendente dell’uomo e dell’ambiguità costitutiva della sua vita mortale, che se da un lato lo rende debole dall’altro è ciò che solo può renderlo vivo.
Significativo è che in entrambe le opere, sia nel finale apocalittico de L’angoscia delle macchine sia in quello utopico-regressivo di Raun, è proprio l’apparentemente disprezzata donna a innescare e permettere la “rivoluzione reazionaria” che porta al rovesciamento delle società totalitarie a cui l’uomo si è auto-condannato. Inoltre, entrambi gli eroi redentori dello spirito umano si ammantano di connotazioni cristologiche nel loro sacrificio, in una sorta di rivalutazione inconscia della religione disprezzata dai futuristi; il ritorno ad una natura pretecnologica del finale di Raun è poi anticipato in entrambe le opere da immagini in cui diversi elementi naturali assumono connotati sinistri e distruttivi invadendo i corpi e gli animi già meccanizzati.
Funzionale ad esprimere la particolare concezione vasariana è anche la lingua delle due pièce: ricca di spunti futuristi ma costantemente percorsa da stilemi simbolisti ed espressionisti, utili a esprimere il grido sofferente di un’anima che non vuole ancora sacrificarsi del tutto alla modernità (per lo spoglio linguistico si rimanda a Verdone, 1969).
In conclusione, Vasari sembra essere una figura percorsa da due tendenze contrapposte: l’avanguardismo distruttivo da un lato e la necessità di riscoprire sotto le ceneri della lotta alla tradizione costanti valori umani non sacrificabili. Sintesi improbabili di queste due istanze apparentemente inconciliabili, le sue opere ricordano all’uomo di non dimenticare la fragilità della propria natura, che anche nei momenti di apparente onnipotenza può tornare a chiedergli il conto.
Bibliografia:
Karel Čapek, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, a cura di Alessandro Catalano, Venezia, Marsilio Editori, 2015.
Mario Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma, Lerici Editore, 1969.
Mario Verdone, Alla scoperta del teatro futurista di Ruggero Vasari in “Il dramma” anno 45, numero 8, Maggio 1969.
Mario Verdone, Teatro italiano d’avanguardia: drammi e sintesi futuriste, Roma, Officina, 1970.
Roberto Tessari, Teatro e avanguardie storiche, Roma – Bari, GLF Laterza, 2005.
Ruggero Vasari, L’angoscia delle macchine e altre sintesi futuriste a cura di Maria Elena Versari, Palermo, :duepunti edizioni, 2009.
Sitografia:
https://www.treccani.it/enciclopedia/paolino-ruggero-vasari_%28Dizionario-Biografico%29/
http://futurismo.accademiadellacrusca.org/manifesti.asp
Maria Elena Versari, Enlisting and updating: Ruggero Vasari and the shifting coordinates of futurism in eastern and central Europe:
Apparato iconografico:
Immagine 1 e Immagine 2: https://www.arengario.it/futurismo/le-macchine-morte-di-raun/