Occultismo e architettura: “Metropolis” oltre “R.U.R.”

Lorenzo Botta Parandera
Birdmen Magazine  – https://birdmenmagazine.com/

Nel 1927 la UFA, casa di produzione cinematografica tedesca, è sull’orlo della bancarotta quando viene acquistata da Alfred Hugenberg per conto del DNVP, il Partito Popolare Nazionale Tedesco: è il preludio al momento in cui la UFA diverrà un importante pezzo dello scacchiere mediatico del futuro partito Nazionalsocialista. Il tracollo finanziario arriva al termine di un biennio di calcoli economici errati nella produzione dei due rischiosissimi progetti del visionario Fritz Lang: i due capitoli de I Nibelunghi (1924) e Metropolis (1927). Metropolis, in particolare, è un investimento folle per budget, maestranze coinvolte e tempi di lavorazione – uno sforzo economico quantificato in oltre 5 milioni di franchi. Il risultato di questo lavoro maestoso, tra i kolossal del cinema muto, verrà mal accolto dal pubblico e demolito per anni dalla critica per una supposta favolistica ingenuità narrativa, senza un occhio di riguardo per la maestosa cura tecnica ed estetica che renderà il film di Lang un’immortale fonte d’ispirazione per la fantascienza d’ogni epoca. Metropolis è certo un esempio di come la tematica del robot incroci la schiavitù del lavoro, ma con sostanziali differenze dalla pièce di Čapek R.U.R. Come si vedrà, non è solo alla fantascienza ma è anche e soprattutto alla cultura romantica che si può far riferimento per leggere l’essenza del film, da riscoprire come tutt’altro che uno sforzo infantile di una produzione folle.

Certo è che la fantascienza di Metropolis, come in R.U.R., è al servizio della lotta di classe: la futuristica città di Metropolis è una ricca utopia per la classe dirigente in superficie, ma a spese del proletariato, che vive in un sottosuolo volto a celare la natura distopica del racconto. Eroe dei due mondi è il giovane Freder, che abbraccia la causa rivoluzionaria di Maria, giovane angelicata che guida il popolo sotterraneo, profeta di una trasformazione pacifica del sistema. Parlare di R.U.R. in Metropolis significa parlare in particolar modo di Maria, la quale viene sostituita da un ingannevole androide che ha le sue precise fattezze, ma che si renderà responsabile di una rivolta violenta e senza controllo, opposta all’ideologia della giovane. L’androide Maria è in effetti un essere malvagio che fa leva sul portato perturbante dell’ibrido tra uomo e macchina, senza portare con sé le caratteristiche del robot di Čapek.

Per questo motivo, le critiche allo sforzo di Lang giungono in buona parte dagli ammiratori del drammaturgo ceco, cui il regista austriaco e la moglie Thea von Harbou, principale autrice della sceneggiatura di Metropolis, devono ispirazione. “I have recently seen the silliest film. I do not believe it would be possible to make one sillier”: H. G. Wells inizia così una recensione distruttiva ai danni di Metropolis, un testo che comunque ha il merito di mettere a fuoco aspetti fondamentali del film di Lang, tra cui la relazione poco virtuosa con il dramma di Čapek. È quasi a malincuore che Wells nota come R.U.R. respiri in modo vago e obsoleto nel testo di Lang e von Harbou, che corteggia invece un’ennesima citazione a Mary Shelley. Il robot, ovvero la falsa Maria, è una subdola sobillatrice senz’anima, una malvagia a tutto tondo, non una metafora dello sfruttamento. Per trovare nel cinema riferimenti più onesti a R.U.R. è più indicato guardare altrove, per esempio in Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Grazie ovviamente all’ottimo romanzo Do Androids Dreams of Electric Sheeps (1968) di Philipp Dick, che certo deve molto a Čapek, pur essendo influenzato anche da Lang.

Oltre a Maria però, è doveroso notare che la figura del robot lascia la sua impronta anche sui lavoratori dei bassifondi, macchine tra macchine, schiavi dell’apparato industriale che Freder sperimenta quasi per caso sulla propria pelle. La macchina è qui il carnaio di operai costretti ogni giorno a una marcia forzata verso un lavoro automatizzato e reificante, persi in uno spazio più simile alle catacombe che a una fabbrica. Questo labirinto oscuro e denso di vapore assume connotati bestiali quando esplode uccidendo alcuni operai: in un delirio allucinatorio Freder lo immagina come il dio pagano Moloch che chiede vite umane in sacrificio. Moloch deve essere considerato come una spia del vero riferimento culturale caro a Lang, ovvero il Romanticismo tedesco, il paganesimo e la cultura magica, curiosamente conviventi con elementi cristiani. Piuttosto che alla fantascienza, conviene forse guardare alle tinte fiabesche e fantastiche, inscrivendo al contempo il viaggio di Freder nel classico percorso del Bildungsroman. Con Wells si è già notato che Metropolis convoca la Mary Shelley di Frankenstein, ma non solo: occorre infatti porre ancor più attenzione sul professor Rotwang, scienziato artefice dell’androide riottoso.

Piuttosto che uno inventore, Rotwang è infatti rappresentato come un alchimista o un mago e il personaggio è costruito su questo immaginario. Tra i grattacieli futuristici della città, l’abitazione di Rotwang spicca per il suo essere simile a un palazzo antico: è infatti l’antica residenza di un mago orientale, sopravvissuta allo sviluppo urbanistico di Metropolis, ed è il nodo che unisce la città alta e i bassifondi, al centro dell’intricato cunicolo dell’occulto su cui si fonda la città. Seppure egli si presenti con l’aspetto stereotipato dello scienziato folle con tanto di braccio robotico – un’immagine forse buffa e che oggi sarebbe forse ascrivibile al cartone animato –, all’interno del suo laboratorio non mancano elementi come il pentacolo, a segnalare l’appartenenza della sua art al magico e, simbolo ripreso anche dalla Torre di Babele, grattacielo del governo della città. L’intera città è in effetti una sorta di labirinto dalla topografia misteriosa e illogica, che cova in sé l’occulto e non solo la tecnologia.

Al di là di questo incontro chimerico tra fantascienza e magia, quello che però ancora oggi non è chiaro nemmeno ai più esperti detrattori è quanto di più lampante, per contro, vi sia: nel film di Fritz Lang è la città di Metroplois a essere la vera protagonista. Mai prima del 1927 era stato prodotto un magniloquente kolossal sulla tematica del lavoro e dello sfruttamento del proletariato, ed è la città stessa il contenitore metaforico di questo messaggio. Metropolis è un essere vivente che necessita di dover essere “curato” dalla malattia dell’iniquità e ogni ferita a questo delicato sistema urbano si ripercuote a ogni livello, come succede quando viene distrutto il generatore – la “Macchina del Cuore” – e la città cade a pezzi. Il messaggio di Metropolis non è semplicemente la ricerca di un equilibrio, una mediazione, tra le classi sociali, ma una prospettiva di interdipendenza olistica della società che ben dialoga con l’anima ambivalente, futuristica e insieme occulta, della città.

Ecco allora che sono pienamente comprensibili la dedizione maniacale e l’investimento onerosissimo – seppur a conti fatti letale – per dare alla città la veste più bella e innovativa della storia della settima arte fino a quel momento. L’utilizzo del metodo Schüfftan per restituire la monumentalità degli sfondi attraverso un trucco speculare e le varie settimane di lavoro per la costruzione di set utili a brevi sequenze sono solo alcuni tra i più noti espedienti che permettono alla città di prendere vita in maniera profonda e memorabile. Una mastodontica messa in scena favorita dalla regia di Fritz Lang, che di frequente adotta piani e carrellate adeguati a una spazializzazione del tessuto geometrico di Metropolis, mettendo in risalto l’eloquenza dell’architettura.

Fatti i conti con la povertà semantica dell’androide rispetto al ben più maturo e fondante robot di R.U.R., non si può non ammettere che la profondità di Metropolis è da ricercare altrove e che essa è articolata in modo fenomenale dal linguaggio cinematografico espresso dal film. Se ancora oggi si concede un tale spazio a Metropolis, a quasi un secolo di distanza dalla sua nascita, è per la capacità del film di Lang di costruire uno dei set più memorabili della storia del cinema, al contempo rendendolo un mezzo di comunicazione maturo e denso, il vero cuore di significazione della pellicola.

Bibliografia:

George H. Wells, Mr. Wells Reviews a “Current” Film, in “New York Times”, 17 aprile 1927, p.4.

Patrick McGilligan, Fritz Lang: The Nature of the Beast (2013), Minneapolis, University of Minnesota Press, USA.

Apparato iconografico:

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