“L’orma”, un racconto di Karel Čapek

Traduzione di Linda Caregnato

Šlépěj (“L’orma”) è un racconto di Karel Čapek pubblicato all’interno della raccolta Boží muka (“Via crucis”), pubblicata per la prima volta nel 1917 presso la casa editrice dell’editore Jan Otto. In ciascuno di questi tredici testi Čapek indaga questioni di portata filosofica e avvolte, come nel caso de L’orma, nel mistero. Il racconto, qui proposto in una nuova traduzione, è già stato tradotto nel 1941 da Luigi Salvini e pubblicato sulla rivista “Il Maestrale”.

Prima edizione del 1917

Edizione ceca di riferimento: Karel Čapek, Boží muka, Praha, Československý spisovatel, 1981.

L’orma

Quieta, la neve cadeva senza sosta sul paesaggio gelato. Con la neve cala sempre il silenzio, pensò Boura riparato in un capanno, e avvertiva una sensazione solenne e malinconica, perché si sentiva solo in quel paesaggio sconfinato. La terra davanti ai suoi occhi perdeva ogni sfumatura, si unificava e si distendeva, coperta da bianche onde e intonsa dalle impronte confuse della vita. Alla fine, la danza dei fiocchi iniziò a diradarsi, per poi arrestarsi, l’unico movimento in quel silenzio solenne. Esitando, il viandante affondava i piedi nella neve intatta e gli pare strano essere il primo a segnare il paesaggio con la lunga fila dei suoi passi. Ma qualcuno, nero e coperto di neve, gli viene incontro; due catenelle di passi si troveranno una accanto all’altra e, incrociandosi, porteranno un primo accenno di confusione in questa tabula rasa.

Tuttavia, l’altro viandante si ferma, ha ancora della neve sulla barba e osserva agitato qualcosa sul ciglio della strada. Boura rallentò il passo e guardò in direzione degli occhi del viandante; le catenelle si incontrarono trovandosi l’una accanto all’altra.

“Vede quell’orma lì?”, chiese l’uomo coperto di neve indicando un’impronta lontana circa sei metri dal ciglio della strada, dove si trovavano entrambi.

“La vedo, è un’orma umana.”

“Già, ma come è finita lì?” Qualcuno sarà passato di qua, voleva dire Boura, ma rimase di stucco; l’orma se ne stava isolata in mezzo al campo, e né prima né dopo c’erano segni di altri passi; risplendeva nitida sulla superficie bianca, ma era isolata, niente si avvicinava o si allontanava. “Come ha fatto a finire lì?”, si meravigliò, e fece per avvicinarsi.

“Aspetti”, lo fermò l’altro, “finirà per farci delle impronte inutili intorno e rovinerà tutto. Bisogna trovare una spiegazione”, aggiunse irritato, “non è possibile che ci sia solo un’orma. Supponiamo che qualcuno sia saltato in mezzo al campo, ma allora dovrebbero esserci dei passi più avanti. Ma chi sarebbe potuto mai saltare così lontano e come avrebbe fatto ad atterrare su un piede solo? Avrebbe perso l’equilibrio e poggiato da qualche parte l’altro piede; sarebbe stato costretto correre un po’ in avanti, come quando si salta giù da un tram in corsa. Ma qui non c’è un altro piede”.

“Che assurdità!”, disse Boura, “se fosse saltato da qui, ci sarebbero le sue impronte sulla strada e invece ci sono solo i nostri passi. Nessuno è passato di qua prima di noi”.

“L’impronta ha il tallone girato verso la strada; chi l’ha fatta, stava andando in quella direzione. Se fosse andato verso il villaggio avrebbe dovuto svoltare a destra, ma da quel lato ci sono solo campi, e cosa diavolo c’è da cercare ora in mezzo ai campi?”

“Mi scusi, ma chi ha messo il piede là dovrà essersene pure andato da quella parte, ma io sostengo che, in realtà, nessuno ci sia andato perché non ha fatto altri passi. È chiaro. Nessuno è passato di qua. L’impronta deve avere un’altra spiegazione!” Boura si sforzava di riflettere. “Forse, nel terreno c’era una buca naturale o l’impronta è stata fatta nel fango gelato e poi ci ha nevicato sopra. Oppure, aspetti, forse hanno abbandonato una scarpa e, magari, quando è caduta la neve, se l’è portata via un uccello. E poi è rimasta una zona non ricoperta di neve simile a un’orma. Dobbiamo cercare un’ipotesi naturale.”

“Se già prima della tormenta di neve ci fosse stata una scarpa, sotto ci sarebbe rimasta della terra, ma io vedo solo neve.”

“Forse l’uccello se l’è portata via mentre stava ancora nevicando; oppure, volando, gli è caduta nella neve fresca e poi se l’è ripresa. Insomma, non può essere un’orma umana.”

“Questo suo uccello mangia le scarpe? O le usa per farsi il nido? Un uccellino non è in grado di trasportare una scarpa e un uccello grande non riesce ad entrarci. Bisogna trovare una soluzione plausibile. Io penso che sia un’orma umana e, se non è stata fatta da un passante, sarà stata fatta dall’alto. Lei ritiene sia colpa di un uccello, ma è possibile che sia stata fatta, non so… da una mongolfiera. Magari qualcuno era appeso una mongolfiera e ha messo un piede solo nella neve per prendersi gioco di tutti. Non rida, a me personalmente non piace fare delle ipotesi così forzate, eppure… Sarei lieto se non fosse un’orma umana.” Ed entrambi si avvicinarono.

Le circostanze non potevano essere più chiare.  Dal fosso lungo la strada si alzava un campo coperto di neve, non arato; più o meno nel mezzo c’era quell’impronta e, un po’ più in là, un albero, non tanto alto, ricoperto di neve. Lo spazio tra la strada e l’orma era immacolato, senza tracce di alcun tipo. La superficie della neve non era rovinata o smossa da nessuna parte. La neve era soffice e malleabile, completamente diversa rispetto a quand’è tutto gelato.

Era davvero l’orma di un piede. Era l’impronta di una scarpa grande, di tipo americano, con un’ampia suola e cinque duri chiodi nel tacco. La neve era compressa in modo pulito e nitido e non c’era nemmeno un fiocco che non fosse stato schiacciato: l’orma era stata fatta quando aveva già smesso di nevicare. L’impronta era netta e distinta, il peso che l’aveva impressa doveva essere di gran lunga maggiore di quello dei due uomini chini. L’ipotesi dell’uccello e della scarpa venne abbandonata senza proferire parola.

Proprio sopra all’orma pendevano i rami dell’albero: alcuni rametti sottili erano coperti di neve ancora intatta. Sfiorando un ramo, cadevano mucchi di neve. L’ipotesi che provenisse “dall’alto” cadde del tutto. Non era possibile fare qualcosa dall’alto senza far cadere la neve dall’albero. La questione dell’orma assunse una chiarezza grave e cruda.

Al di là dell’orma c’era solo l’intonsa superficie nevosa. Salirono sul pendio e varcarono la cima delle colline; anche qui in lontananza diradava un pendio bianco e liscio, e, ancora più in là, si distendeva un nuovo pendio, ancora più largo e bianco. A distanza di chilometri non si vedeva l’orma dell’altro piede.

Tornarono indietro e trovarono la doppia fila dei loro passi, regolari e belli, quasi fossero stati fatti apposta così. Ma tra le due file, in mezzo al cerchio calpestato, c’era l’orma del piede estraneo, più robusta, cinica nel suo isolamento; qualcosa li tratteneva dal calpestarla e dal liberarsene di comune tacito accordo.

Boura, confuso, si sedette esausto sul paracarro. “Qualcuno ha voluto prendersi gioco di noi.”

“È vergognoso”, disse l’altro, “una stupidaggine ma, accidenti, ci sono anche dei limiti fisici. Dopotutto è impossibile da … Ascolti”, sbottò improvvisamente e quasi in preda all’angoscia, “se qui c’è solo un’impronta, non potrebbe essere stato qualcuno con una gamba sola? Non rida, lo so che è assurdo, ma ci dovrà pur essere una spiegazione. Dopotutto ne va dell’intelletto che viene minacciato da qualcosa … Sono davvero disorientato. O siamo entrambi pazzi, o sto delirando a causa della febbre, oppure deve esserci una spiegazione naturale.”

“Siamo entrambi pazzi”, constatò Boura soprappensiero. “Continuiamo a cercare una soluzione naturale e troviamo le ragioni più complesse, più insensate e più innaturali, solo perché risultino naturali. Però, forse, potrebbe essere più semplice e … più naturale dire che si tratta semplicemente di un miracolo. Così ci saremmo solo meravigliati e avremmo continuato tranquillamente per la nostra strada. … Senza tutta questa confusione. Magari addirittura soddisfatti.”

“Ma io non mi sarei accontentato. Se con quest’orma fosse successo qualcosa di grandioso… Se a causa sua fosse capitato qualcosa di buono a qualcuno, io stesso cadrei in ginocchio e urlerei ‘miracolo’. Ma quell’impronta così imbarazzante! Ma è così patetico fare un’orma sola, quando basterebbe fare una normale fila di passi.”

“Se davanti a lei qualcuno resuscitasse una ragazza morta, lei cadrebbe umilmente in ginocchio; ma prima ancora che la neve sui pantaloni si sciolga, lei penserebbe che si sia trattato di morte apparente. Qui, a dire il vero, non c’è niente di apparente; qui è avvenuto, diciamo, un miracolo nella sua forma più pura, come quando si fa un esperimento di fisica.”

“Forse io non crederei nemmeno a una resurrezione del genere, ma anch’io vorrei essere salvato e sto aspettando un miracolo… qualcosa che giunga e mi cambi la vita. Quest’orma non può cambiarmi o redimermi e non mi salverà da niente. Per me è solo una tortura, mi è entrata in testa e non riesco a liberarmene. Ma io non ci credo: un miracolo mi soddisferebbe, ma quest’orma è il primo passo verso l’incertezza. Sarebbe stato meglio se non l’avessi vista.”

Entrambi rimasero a lungo in silenzio. Riprese a nevicare e la neve scendeva sempre più fitta. “Mi è venuto in mente”, disse Boura, “di aver letto in un libro di Hume di un’orma umana solitaria nella sabbia. Quindi questa non sarebbe la prima. Magari ce ne sono a migliaia, magari ce ne sono moltissime, che non ci dicono niente, perché siamo abituati a regole precise. Qualcun altro non se ne sarebbe nemmeno accorto. Non gli sarebbe venuto in mente che sia un caso isolato e che nel mondo ci siano cose che non abbiano a che fare tra loro. Guardi, le nostre orme sono tutte uguali, ma questa, così isolata, è più grande e profonda delle nostre.

E quando penso alla mia vita, mi sembra che io debba riconoscervi… dei passi che conducono dal niente al niente. È terribilmente fuorviante pensare a tutto quello che ho passato, come l’anello di una catena che si snoda secondo un ordine e finisce con un altro. Succede che, all’improvviso, si vede o sente qualcosa, prima di cui non c’è niente, niente, niente di simile, e nemmeno dopo c’è niente. Ci sono cose umane che non sono collegate tra loro e ovunque dimostrano la loro condizione di isolamento. Io conosco cose dalle quali non si derivava niente, che non redimevano niente e nessuno e, tuttavia… Ci sono stati casi che non avevano un seguito e non aiutavano a continuare a vivere, ed erano forse le cose più importanti della vita. Non le è venuto in mente che quest’orma sia, a lungo andare, la cosa più bella di tutte quelle che ha visto fino ad ora?”

“E io mi ricordo”, rispose l’altro, “degli stivali dalle sette leghe. Forse da qualche parte la gente ha già trovato un’impronta del genere e non ha trovato un’altra spiegazione. Chi lo sa, magari i passi che la precedono sono vicino a Pardubice e Kolín, e quelli successivi a Rakovník. Ma, allo stesso modo, posso pensare che l’impronta seguente non sia stampata nella neve bensì nella società, nel bel mezzo di un avvenimento, in un luogo in cui è successo o succederà qualcosa; che questo passo sia l’anello di una fila continua di passi. Si immagini una fila di prodigi simili, nei quali quest’orma ha il suo posto naturale. Se avessimo un giornale ben informato, probabilmente avremmo trovato nelle ‘Notizie del giorno’ informazioni sulle altre impronte e potremmo seguire il percorso di qualcuno. Forse una divinità sta segnando il suo percorso e lo fa con calma e senza incoerenza; forse il suo percorso indica una specie di strada maestra che dobbiamo intraprendere. Così potremmo seguire passo dopo passo le impronte divine. Potrebbe essere la via della salvezza. Tutto è possibile … Ed è terribile avere con buona certezza un passo di questo percorso davanti a noi e non poterlo seguire.”

Boura tremò e si alzò. Nevicava sempre più fitto e il campo calpestato, con la grande orma in mezzo alle altre, spariva sotto la neve fresca. “Io non la dimenticherò”, disse l’uomo coperto di neve, … “quest’orma che non c’è già più e che non ci sarà mai più”, concluse Boura tra sé, e le loro strade si separarono in direzioni opposte.

 

Apparato iconografico:

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