“La fabbrica dell’Assoluto” di Karel Čapek come critica alla modernità

Martina Mecco

Link al libro:
https://www.voland.it/libro/9788862433655


Lo scorso luglio è stato edito da Voland Editore La fabbrica dell’Assoluto, il primo romanzo dello scrittore ceco Karel Čapek. La traduzione è stata realizzata da Giuseppe Dierna, già traduttore di altri classici cechi, come, ad esempio, Lezioni di ballo per anziani e progrediti di Bohumil Hrabal, o L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera.

Karel Čapek è noto universalmente per aver inventato il termine “robot” nella pièce R.U.R., la cui ricezione nel corso della storia è segnata da un profondo fraintendimento. La fabbrica dell’Assoluto si inserisce all’interno delle opere di Čapek legate alla letteratura “proto-fantascientifica”, che proprio in quegli anni conosce in ambito ceco un’ondata incredibile. Difatti il romanzo in questione si inserisce nella produzione di Čapek caratterizzata da un aspetto fondamentale, ovvero dalla sottile tensione tra la scoperta scientifica come realizzazione del sogno del progresso e la tragedia che avviene nel momento in cui questo sogno si trasforma in incubo. I robot di R.U.R., l’elisir dell’Affare Makropulos (1926), la forza sconvolgente della Krakatite (1924) e il Karburátor (tradotto con “carburatore” nell’edizione Voland) de La fabbrica dell’Assoluto rappresentano quindi il flebile equilibrio a cui è condannata l’umanità.

La copertina del libro edito da Voland e due illustrazioni realizzate da Josef Čapek, fratello dell’autore.

Il romanzo Továrna na Absolutno, come recita il titolo ceco, viene pubblicato da Čapek nel 1922, un anno dopo il successo di R.U.R.. L’opera si snoda in trenta capitoli, la cui lettura viene resa particolarmente scorrevole dal modo in cui era stata inizialmente pubblicata l’opera, ovvero in forma di feuilleton, difatti il sottotitolo del romanzo specifica “Romanzo-feuilleton”. Ciò implica quindi la presenza di una certa suspense alla fine di ogni capitolo, rendendo il tutto accattivante anche per un lettore che per la prima volta si avvicina agli scritti di Karel Čapek. Per questo motivo, a cui si somma anche il fatto che è un romanzo che presenta una struttura più semplice rispetto ad altri romanzi di Čapek (La guerra delle salamandre o Krakatite), La fabbrica dell’Assoluto è un ottimo testo che permette al lettore italiano un primo avvicinamento all’opera dell’autore.

La vicenda si costruisce inizialmente sul rapporto tra due figure: G.H. Bondy, presidente degli stabilimenti MEAS e stilizzazione dell’imprenditore di inizio Novecento, e Marek, ingegnere e inventore di un Karburátor in grado di bruciare la materia e produrre energia, che in termini scientifici si identifica nel processo di scissione dell’atomo. L’imprenditore Bondy si accorge dell’invenzione di Marek mentre, annoiato e pensando alla crisi delle risorse di carbone, legge il giornale. Il primo pensiero che gli viene in mente è proprio quello di sfruttare la scoperta con fini puramente commerciali. Già a partire dalle prime battute, Čapek mette immediatamente il lettore in guardia sul fatto che nella ricerca del profitto non ci sia nulla di nobile: “Un’invenzione simile sembra fatta apposta per te. C’è d’arricchircisi!” (p.26). Nonostante i toni e le premesse sfocino all’interno del genere della letteratura fantascientifica, all’interno del romanzo manca l’attenzione che di solito viene data, nelle opere che rientrano in questo genere, alle caratteristiche tecniche dell’invenzione. Ciò che interessa infatti a Čapek è porre l’attenzione sull’aspetto straordinario dell’invenzione solo inizialmente, per poi realizzare un ribaltamento dei piani in cui ad essere sottolineate sono le conseguenze drammatiche della scoperta.

Difatti, l’uso dell’invenzione a servizio della produzione industriale mette in moto un processo che diviene ben presto incontrollabile. Se da una parte la produzione industriale diventa sempre più sofisticata in termini di modalità e strumenti, dall’altra l’umanità viene sconvolta sul piano sociale. Il mondo, infatti, viene permeato dallo scarto del Carburatore, l’Assoluto che come un gas si diffonde nell’aria alla velocità della luce. Questo scarto del processo “chimico” ha come effetto collaterale un ribaltamento morale su chi viene a contatto con la sostanza. Ai malcapitati “sembra di volare” (p.33), sovviene una “immensa sensazione di beatitudine” (p.33) o, ancora, si legge “d’improvviso nel mio petto ha preso a effondersi una sorta di calore. Sapete, dentro di me si è udito come uno scricchiolio, e io ho cominciato a respirare, come volassi in cielo” (p.67). L’Assoluto permea tutto, Dio scende sulla Terra sconvolgendola in modo irreparabile. Senza ora entrare nello svolgimento del romanzo, in modo da lasciare al lettore il piacere della lettura e della scoperta, vale la pena notare come l’unico modo per fermare questa distruzione dell’umanità sia rappresentato, in senso uguale e contrario, dalla distruzione dell’invenzione stessa, come avviene anche nelle altre opere citate all’inizio.

La riflessione costruita da Čapek nel romanzo si riallaccia sul piano filosofico alle teorie di Leibniz: “E conosci Leibniz? Leibniz insegna che la materia è formata di punti spirituali, le monadi, che sono sostanza divina. Cosa ne pensi?” (pp.38-39). Sul piano letterario invece, il testo si inserisce in una tradizione parecchio ampia, vale a dire quella del tentativo di ricerca del principio divino a livello empirico. Questo aspetto è esplicitato in un riferimento realizzato in modo conscio dall’autore, difatti nel titolo del romanzo di Čapek riecheggia l’opera dello scrittore francese Honoré de Balzac La ricerca dell’assoluto (1834). Il riferimento a Balzac si spinge oltre, infatti alla fine de La ricerca dell’assoluto viene presentato il vecchio Balthazar in punto di morte che, dopo una vita spesa alla ricerca dell’Assoluto, legge sui giornali che è stato scoperto da altri. Se in questi altri si identifica la figura di Marek, allora il romanzo di Čapek si pone come continuazione del romanzo di Balzac, rivedendo però sul piano stilistico la forma tradizionale del romanzo impiegata da uno dei maestri del realismo francese.

Sebbene i confini geografici in cui si snoda la vicenda siano ben riconoscibili all’interno del romanzo non solo attraverso l’indicazione di luoghi precisi, ma anche con espressioni del tipo “potrebbe illuminare l’intera Praga” (p.35), al tempo stesso risulterebbe erroneo affermare che il testo si proponga come messa alla berlina della società cecoslovacca degli anni Venti. La prosa di Čapek, infatti, si rende portatrice qui, come negli altri suoi scritti, di una missione di portata universale, ovvero quella di mostrare una società afflitta dal mostro dell’industrializzazione e del progresso. Il messaggio diventa un monito riferito all’umanità, mostrando come anche in un futuro così prossimo come il 1943 (difatti il romanzo viene pubblicato nel 1922) l’uomo si potrebbe trovare a fare i conti con un disastro irreparabile, da cui non è possibile far ritorno. Accanto a questo aspetto, ciò che rende ancor più affascinante il testo è lo stile dell’autore, frutto di anni di elaborazione insieme al fratello Josef all’interno di quella che dagli esperti boemisti viene definita “Ditta–Čapek”. Difatti, accanto a presagi terribili, sensazioni inquietanti come quella che riguarda la scomparsa dell’umanità, si fa strada la carica ironica dell’autore, tratto tipico della letteratura ceca in generale. Accanto a questo, si può individuare anche una decostruzione della forma tipica del romanzo, definito da Čapek stesso come un “romanzo-feuilleton”, dove l’inserimento di stralci giornalistici anticipa in parte la struttura di un romanzo più tardo di Čapek, vale a dire La guerra delle salamandre (1936). Se queste parole di commento non bastano a invitare il lettore ad avvicinarsi al romanzo di Karel Čapek, questa citazione chiarirà ancora di più la forza narrante dell’autore:

Bondy, il mio Carburatore è qualcosa di eccezionale. Rivoluzionerà il mondo dal punto di vita tecnico e sociale; ridurrà sensibilmente i costi di produzione; eliminerà la miseria e la fame; salverà un giorno il pianeta dal raffreddamento totale. Dall’altro lato, però, scaraventa sulla terra Dio come sottoprodotto. Ti scongiuro, Bondy, non prendere la cosa sottogamba; noi non siamo abituati ad avere a che fare con un Dio reale; non sappiamo minimamente cosa possa combinare la sua presenza…diciamo dal punto di vista culturale, morale e così via. Amico, qui è in gioco la civiltà umana! (pp. 43-44)

Queste parole pronunciate da Marek sembrano essere scritte apposta per muovere una critica alla società contemporanea. Difatti, il lettore che si immergerà nelle pagine di Karl Čapek scoprirà una prosa affascinante nel suo stimolo alla riflessione e tremendamente attuale, quasi profetica, nonostante sia passato ormai un secolo dalla sua stesura. Fraintendimenti interpretativi a parte, il momento in cui la prosa di Čapek smetterà di parlare ai lettori sarà quello in cui si sarà consumato definitivamente il sistema capitalistico in cui viviamo e se quel momento sarà tragico o meno, spetta al lettore dirlo.

 

Bibliografia:
Karel Čapek, Giuseppe Dierna (a cura di), La fabbrica dell’assoluto. Romanzo feuilleton, Roma, Voland Editore, 2020. I riferimenti di pagina si rifanno alla versione ebook.
Apparato iconografico:
La copertina e le immagini sono contenute all’interno dell’edizione Voland Editore.