Josef Škvorecký: una voce ceca dall’altra parte dell’Atlantico

Martina Mecco

La letteratura, come afferma Arnošt Lustig in un discorso tenuto nel 1980 in occasione dell’istituzione di Josef Škvorecký al “Neustadt Prize”, è sfortunatamente o fortunatamente legata  in modo indissolubile alle contingenze storiche in cui viene prodotta. Il caso della letteratura cecoslovacca prodotta nella seconda metà del XX secolo è in questo senso sintomatico. La notte dell’invasione tra il 20 e il 21 agosto del 1968 ha determinato uno sviluppo della produzione letteraria che potremmo tranquillamente definire tragico. Con la presa del potere da parte di Husák e l’inizio della Normalizzazione è stato messo in atto un processo di russificazione che ha coinvolto non solo i quadri politico-­sociali, ma anche gli ambienti artistico-­letterari, importando dal modello sovietico anche la retorica del realismo socialista. Gli intellettuali si sono ritrovati costretti a scegliere tra tre destini possibili: l’accettazione delle imposizioni del sistema, il diventare dissidenti aderendo a Charta 77 o, in ultima battuta, l’emigrazione. Nella memoria collettiva occidentale tra i nomi di coloro che hanno scelto, o che sono stati costretti a scegliere questa terza strada spicca quello di Milan Kundera, ci sono però altri intellettuali che hanno avuto un ruolo di primaria importanza, oltre che per la loro produzione, anche nella diffusione della letteratura ceca all’estero. È questo il caso di Josef Škvorecký.

Josef Škvorecký nasce nel 1924 a Náchod, una piccola città ceca sul confine polacco, ma la sua attività di intellettuale prende forma nella capitale, dove si distingue anche come traduttore di opere inglesi. Il suo debutto in letteratura avviene con l’opera Zbabělci (I vigliacchi, Rizzoli, 1969), scritta tra il 1948 e il 1949, ma pubblicata in capitoli tra il 1956 e il 1958 sulla rivista “Svetová Literatura”. La pubblicazione di questo romanzo è uno schiaffo all’opinione pubblica, che reagisce gridando allo scandalo. Il motivo della reazione non risiede nel fatto che venga denunciato apertamente lo stalinismo, la trama infatti si potrebbe brevemente riassumere come la storia di un gruppo di giovani appassionati di jazz che coltivano il sogno americano durante gli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale, prima della liberazione, avvenuta per mano degli americani, dal regime nazista. Paradossalmente, il motivo per cui il romanzo è stato profondamente criticato risiede nel fatto che non presenta alcuna impronta esplicitamente ideologica. Sebbene quest’opera appartenga a una fase ben precedente alla scelta di Škvorecký di emigrare, essa rappresenta una chiara anticipazione dei grandi romanzi del periodo canadese, vi compare infatti per la prima volta l’antieroe Danny Smiřický e prende forma la “scomoda” ironia dell’autore.

Josef Škvorecký decide di emigrare a Toronto insieme alla moglie Zdena Salivarová poco dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia. Nel 1971, grazie anche alla preziosa collaborazione di Zdena stessa, fonda la casa editrice 68 Publishers. Durante la Normalizzazione gli autori cecoslovacchi avevano due modi di pubblicare le loro opere: o attraverso la rete del samizdat (molto importanti furono le case editrici “Edice Expedice” e “Edice Petlice”), oppure avvalendosi di case editrici nate all’estero. 68 Publishers non è l’unico sostegno che viene dato agli intellettuali della Cecoslovacchia dall’estero, anche la rivista “Listy”, fondata a Roma nel 1970 da Jíři Pelikán, e la casa editrice londinese Palach Press, fondata invece nel 1974 furono molto importanti. All’interno di questo panorama, però, 68 Publishers svolse un ruolo centrale.

Il primo testo ad essere pubblicato nel 1971 è Tankový prapor (“Battaglione carrista”), romanzo scritto da Škvorecký nel 1954 e mai tradotto in italiano. Come afferma Škvorecký stesso, questa casa editrice aveva come fine non il tradurre testi cechi o slovacchi per diffonderli in Occidente, ma quello di permettere agli emigrati di leggere all’estero opere la cui pubblicazione era stata proibita in Cecoslovacchia. Da ciò ne consegue, ovviamente, il fatto che si siano creati i giusti presupposti per la realizzazione di traduzioni in altre lingue. Tra i numerosi autori finiti nella cerchia di 68 Publishers abbiamo sia opere inviate alla casa editrice da emigrati (questo è il caso, ad esempio, di Milan Kundera, ma anche del sopracitato Arnošt Lustig), sia redatte dai dissidenti rimasti in patria (come Václav Havel o  Ivan Klíma). Nel secondo caso, ci si potrebbe chiedere come facessero i manoscritti a giungere a Toronto e ripercorrere questi “traffici illegali” sarebbe interessante, ma per ragioni di spazio ci si limita a ricordare gli emigrati cechi che, recatosi in patria per visitare dei parenti, tornavano nel paese ospitante portandosi come souvenir alcuni di questi manoscritti proibiti. A essere pubblicati furono anche testi che trattavano la Cecoslovacchia, come ad esempio L’orgia di Praga di Philip Roth, scrittore americano importantissimo per la sua mediazione fra la Praga Comunista e l’Occidente.

L’attività di 68 Publishers si conclude nel 1994  e il motivo che portò alla chiusura della casa editrice viene spiegato da Škvorecký in un’intervista di qualche anno prima. Egli afferma infatti di voler ancora pubblicare dodici volumi per congedarsi dai lettori, in quanto con la liberalizzazione in Cecoslovacchia e il ritorno della libertà di stampa la funzione di 68 Publisher sarebbe venuta meno.

Ritornando al tema dell’emigrazione, già prima della Normalizzazione il popolo ceco e quello slovacco sentirono la necessità di lasciare il paese per trasferirsi in luoghi in cui sperare di vivere una vita a pieni diritti. Il Canada, in particolare, è stato meta di questi flussi già a partire del XIX secolo, quando, se non nei sogni dei primi patrioti, non esisteva ancora lo stato Cecoslovacco e vigeva il dominio dell’Impero Asburgico. L’emigrazione degli intellettuali durante la Normalizzazione assume un significato a sé stante.

Škvorecký stesso si è dedicato in modo approfondito alla riflessione sulle condizioni degli intellettuali costretti a continuare la loro vita e la loro professione di scrittori in un paese straniero.  In suo articolo del 1976, teorizza due tipi di  scrittori emigrati: quelli riconducibili a Ovidio, in quanto affetti da una terribile nostalgia, e quelli invece come Joseph Conrad, ovvero coloro che si sono immersi completamente nella cultura  ospitante adattandone anche la lingua. L’intellettuale ceco emigrato starebbe a metà tra queste due tipologie. La scelta di emigrare è dettata per Škvorecký sia dall’avversione nei confronti dell’URSS, sia dalla paura di doversi ridurre improvvisamente al silenzio, ritornando a essere uno scrittore underground come negli anni precedenti alla pubblicazione de I vigliacchi. Interessante è anche la decisione presa da Škvorecký di restare a vivere in Canada anche  dopo la fine del regime e di tornare in patria solo per delle brevi visite, in occasione delle quali afferma di aver ritrovato un paese “irreale” e di essersi sentito come in un sogno dai tratti incredibili.

Příběh inženýra lidských duší (Il racconto dell’ingegnere della anime umane, Fandango Libri, 2010) è, insieme a Mirákl (Il miracolo. Racconto giallo su sfondo politico, Fandango Libri, 2010), uno dei romanzi più importanti scritti da Škvorecký durante l’emigrazione. Si tratta di un’opera pubblicata nel 1977, cospicua e parecchio complessa, soprattutto per i riferimenti a nomi ed eventi che risultano estranei a un lettore contemporaneo poco informato sulla storia cecoslovacca recente. La struttura manifesta dei tratti molto complicati, si tratta infatti di un romanzo politematico, la cui narrazione passa liberamente da un piano cronologico all’altro,  in cui la fedeltà storica si fonde alla fabulazione dell’autore. In quest’opera così virtuosa si può osservare un’ingente evoluzione della figura di Danny rispetto alle opere precedenti. Viene raccontata la vita di Danny in quanto emigrato, mostrando il suo rapporto con l’ambiente americano e, grazie ai numerosi personaggi cechi, quello con una comunità di cechi emigrati profondamente afflitta dalla nostalgia per la propria patria. Škvorecký dipinge inoltre la situazione delle università americane negli anni 70, impiegando un atteggiamento satirico non solo nei confronti del corpo docente, ma anche di quello studentesco. L’aspetto più critico prende forma nel momento in cui Danny ammette la propria condizione di isolamento, dovuta a barriere non solo di carattere linguistico o culturale, ma anche di approccio ai grandi avvenimenti della storia recente. Nell’immaginario comune del popolo americano, che in Škvorecký diventa a pieno titolo un personaggio privilegiato dalla Storia, il nazismo e  il comunismo sono ridotti a meri concetti esoterici, la Primavera di Praga è un evento morto e sepolto nel lontano ‘68. A Škvorecký quindi, non importa solo di mostrare la situazione della minoranza emigrata, ma di spingersi oltre, analizzando anche ciò che sta dall’altra parte della barriera sociale, scontrandosi così con un atteggiamento superficiale e a tratti indifferente.

Bibliografia
Arnošt Lustig, Encomium for Josef Škvorecký, “World Literature Today 54”, no. 4 (1980), pp. 505-508.
Josef Škvorecký, Il miracolo. Racconto giallo su sfondo politico, Roma, Fandango Libri, 2010.
Josef Škvorecký, Il racconto dell’ingegnere delle anime umane, Roma, Fandango Libri, 2010.
Josef Škvorecký, I vigliacchi, Milano, Rizzoli, 1969.
Philip Gourevitch, and Josef Škvorecký. An Interview with Josef Škvorecký, in “Columbia: A Journal of Literature and Art”, no. 16 (1991), pp. 88-­102.

Apparato iconografico
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