Piergiuseppe Calcagni
Klaus Mann, figlio del grande Thomas Mann, scrisse Il vulcano – da lui stesso definito come il suo miglior romanzo – tra il 1937 e il 1939, anno della pubblicazione presso la Querido Verlag, una casa editrice di Amsterdam che si impegnava a diffondere in tutto il mondo (tranne nelle zone occupate dai tedeschi) opere di autori in esilio, proibite in patria dalla censura nazista. La vita da esule di Klaus Mann inizia il 13 marzo 1933 a Parigi e, nel corso degli anni fino alla fine della seconda guerra mondiale, lo porterà in Svizzera, Cecoslovacchia, Olanda, Ungheria e infine Stati Uniti.
Il vulcano è il romanzo che meglio rappresenta, all’interno della cosiddetta “letteratura dell’esilio”, la condizione psicologica ed esistenziale degli emigrati tedeschi che scappavano dal nazismo. L’autore riesce a mettere a fuoco la disperazione e il senso di spaesamento di tutti i suoi personaggi tramite la descrizione delle scelte che essi compiono e le situazioni che sono costretti a vivere. Sono tutti impegnati nella ricerca della propria identità, come se sentissero di aver perso la cosa più importante nel momento in cui si sono allontanati dalla loro patria, dalla Heimat, il posto in cui sono nati, cresciuti e dove molti di loro avevano costruito una vita degna di essere vissuta. Infatti ci sono sia persone adulte con un lavoro ed una carriera, sia giovani che hanno già abbandonato l’idea di tornare in Germania per trovare una stabilità e continuano a vagabondare per l’Europa. D’altronde, uno degli aspetti più interessanti del romanzo è proprio quello di eliminare qualsiasi differenza di classe presente fra i personaggi. Si possono trovare professori, imprenditori e uomini ricchi (Abel, la signora Schwalbe, il signor Bernheim, Bobby Sedelmeyer) al fianco di scrittori, attori e dissidenti politici (Marion, Martin, Ilse Ill, Marcel, Kikjou, Theo Hummler, il dottor Mathes) dal momento che tutte le differenze dovute all’estrazione sociale scompaiono quando ci si trova nella medesima condizione di esule, anzi di nomade. Ovviamente ciò che unisce queste persone è il senso di solidarietà insieme all’anti-nazismo. Nello sviluppo della trama i personaggi discutono della situazione politico-culturale della loro epoca esponendo anche opinioni diverse, che però hanno come punto in comune l’ostilità e l’avversione verso quel partito e quella Weltanschauung colpevoli di averli resi estranei nella loro patria.
Il lettore non esperto di storia di cultura tedesca può fare fatica a capire lo stato d’animo dei personaggi de Il vulcano: perché tutta questa tensione nei confronti dell’identità? Sul serio i personaggi pensano che la loro vita non abbia un senso solo perché il partito nazista non li riconosce tedeschi o, peggio ancora, ariani? Per rispondere a queste domande è necessario capire che le ideologie del nazismo non sono nate in un giorno a caso dalla mente di Hitler mentre si trovava in prigione con la penna in mano, pronto a scrivere il Mein Kampf, ma poggiano su basi risalenti al XIX secolo, quando alcuni intellettuali e accademici iniziarono a elaborare teorie, riguardanti la filosofia e l’antropologia, sulla purezza del popolo germanico, sulla sua superiorità nei confronti degli altri popoli. Nel 1900 Jörg Lanz von Liebenfels, un ex monaco cistercense, fonda Osthara, una setta antisemita con una propria rivista. Nel 1910 nasce, grazie a Felix Nieder la Società Thule, un’organizzazione anch’essa antisemita, populista e occultista. Tra il 1918 e il 1920 Eckart, Feder e Rosenberg sono i redattori della rivista “Auf gut Deutsch” e non esitarono a incolpare gli ebrei e i democratici per la sconfitta della Prima guerra mondiale. Questi intellettuali hanno avuto un peso notevole sul pensiero di Hitler e quindi su quello dei tedeschi che durante il nazionalsocialismo erano ormai imbevuti di teorie razziste, convinti che alla purezza esteriore corrispondesse quella interiore, di dover sterminare gli ebrei e della necessità di conquistare e sottomettere i popoli dell’Est Europa per permettere l’espansione verso lo “spazio vitale”. Erano tutti persuasi del fatto che l’individualità di un essere umano dipendesse dalle sue origini storico-culturali.
I nemici, comunque, non sono erano solo gli ebrei e i comunisti e questo Klaus Mann, in quanto omosessuale, lo sapeva molto bene. Non a caso c’è chi parla di romanzo autobiografico o romanzo a chiave a causa della presenza della figura di Martin Korella, un aspirante scrittore omosessuale che fa abuso di droghe. Pare che questa opinione sia da scartare: nel romanzo sono sicuramente presenti degli elementi autobiografici, ma l’intento dell’autore non è quello di descrivere l’esperienza solo dal suo punto di vista, ma vuole che il lettore si renda conto di una realtà psicologica più ampia, ovvero dei sans patrie. L’immagine che rende al meglio non solo l’idea del romanzo stesso, ma della condizione di tutti gli esiliati e della Germania, viene dipinta dal prologo e dall’epilogo. Sono due lettere scritte da Dieter, un giovane alto, biondo, con gli occhi azzurri. In una delle due, datata 1933 e indirizzata a un suo amico emigrato di nome Karl, Dieter si esprime con queste parole:
“Fra quelli che oggi se ne vanno, molti si pentiranno presto. Avranno vita dura e in più la coscienza sporca. Si sposteranno da un paese all’altro, come zingari; nessuno li vorrà; saranno sradicati, si sentiranno mancare il terreno sotto i piedi, molti andranno miseramente in rovina. Ne sono sicuro.” (p.8)
Nell’epilogo la situazione cambia: questa volta siamo a Marsiglia nel 1939 e Dieter è un emigrato.
“L’aria della nostra patria è avvelenata. Respirare è impossibile. È questo il problema: non si riesce a respirare. L’accumulo di menzogne, l’eccesso di malvagità: è questo che avvelena l’aria come una gigantesca carogna.” (p.558)
Questo è il motivo per cui è scappato. In seguito Klaus Mann permette al lettore di accompagnare Dieter nella sua passeggiata verso il porto di Marsiglia. Arrivato sul margine del promontorio, Dieter sale su una roccia per contemplare il mare e sentire il vento fra i capelli.
“In ogni epoca dei giovani hanno assunto quella posa, in piedi su una roccia, lo sguardo rivolto al mare.” (p.560)
Qui Klaus Mann cerca di evocare il famoso dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818), ma il viandante (o i viandanti) inteso da Mann è diverso da quello del dipinto. Friedrich vuole descrivere una sensazione positiva rappresentando lo stupore e il piacere dell’uomo quando percepisce la Natura, l’opera di Dio. Il mare che osserva Dieter, al contrario, non suscita piacere, bensì dubbi sul futuro e sul presente, dove le uniche certezze sono il rischio e il fatto di doverlo affrontare, è il simbolo del vuoto e dell’angoscia esistenziale che la psiche degli esiliati è costretta ad affrontare.
Le nubi all’orizzonte – un istante prima ancora rosee, purpuree e violette – sbiadiscono. La roccia tuttavia, dove sta il fanciullo, risplende: un ultimo o un primo raggio di luce? È difficile distinguere. Anche il ragazzo ancora non lo sa – o forse non lo sa più: questi raggi morenti che, allo stesso tempo affettuosi e severi gli sfiorano la fronte, annunziano l’inizio o la fine? Sono l’ardente addio di una magnificenza che si è esaurita e cerca la quiete? O portano con sé l’ardua misericordia dell’aurora, grazia e imperativo del nuovo giorno?
Molti continuano a interrogarsi sul suicidio di Klaus Mann, avvenuto nel 1949 a Cannes. Molto probabilmente lui, come tanti altri che hanno condiviso lo stesso destino negli anni del nazismo, non è mai riuscito a colmare quel vuoto da apolide neanche cinque anni dopo la fine della guerra. Un vuoto che fu costretto a percepire.
Bibliografia
George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 2015
Klaus Mann, Il vulcano, Roma, Carlo Gallucci Editore, 2012
Apparato iconografico
Immagine in evidenza: https://it.wikipedia.org/wiki/Klaus_Mann
1.https://it.wikipedia.org/wiki/Viandante_sul_mare_di_nebbia#/media/File:Caspar_David_Friedrich_%C2%AD%20_Wanderer_above_the_sea_of_fog.jpg