Michele Maltauro
Interanalisi del fluito prossimo di Věra Linhartová (Meziprůzkum nejblíž uplynulého, České Budějovice, Krajské nakladatelství, 1964) è un libro introvabile dalla bizzarra copertina argentata, tradotto nel 1969 dai coniugi Ripellino per Einaudi.
Con esso, nella Cecoslovacchia del 1964, la giovane scrittrice esordisce ufficialmente senza passare inosservata, giacché questa raccolta di prose sperimentali diventa presto un caso letterario. Ma, come ci informa Sylvie Richterová nella postfazione a Ritratti carnivori, l’unico altro libro di Linhartová tradotto in italiano (Portraits carnivores, Parigi, Le Nyctalope, 1982), la sua produzione in lingua ceca è, già allora, quasi completamente conclusa. Nata a Brno nel 1938, l’autrice si laurea in Storia dell’arte precocemente, lavorando poi come curatrice per varie gallerie d’arte statali della periferia cecoslovacca, prima di spostarsi a Praga. Qui, a inizio anni Sessanta fa parte insieme a Effenberger, Dvorský, Král, Medek e Nápravník di Okruh UDS, gruppo neoavanguardista che si ispira al movimento surrealista ceco, lo contesta e lo riattualizza senza paura di snaturarlo. Il gruppo firma il proprio manifesto il 18 luglio 1964 e fonda la rivista samizdat Objekt, dove compaiono i primi testi dell’autrice. Nello stesso anno viene pubblicata, per l’appunto, anche la sua prima raccolta, mentre nel biennio successivo escono altri tre volumi, redatti però in precedenza al libro argentato. Prima del drammatico epilogo di quegli effervescenti anni Sessanta boemi nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, Linhartová pubblica il suo ultimo libro in ceco: Una casa lontano (Dům daleko, Praga, Mladá fronta, 1968), non tradotto in italiano. Il titolo è involontariamente eloquente rispetto all’immediata svolta biografica e linguistica di Linhartová, che infatti espatria a Parigi e sceglie il francese come sua nuova lingua d’espressione.
Věra Linhartová è uno spazio letterario di difficile accesso. Non solo per l’irreperibilità dei suoi libri, ma anche per la dura prova cui viene sottoposto il lettore nell’approcciarvisi, dal momento che si tratta di testi per nulla agevoli. D’altra parte, la stessa difficoltà è condivisa da voci autorevoli già all’epoca del suo successo cecoslovacco:
“Era venuta una ragazza dai grandi occhi, con un viso assurdamente rotondo, autrice di prose sperimentali; nessuno ci capiva niente.”
Con questa sentenza, che in realtà s’arricchisce poi di dettagli come il “particolare fascino dell’autrice (sembrava un po’ Věra Ferbasová in versione intellettuale)” e del feticcio per la “carta verde, la carta tipica di quell’autrice”, Josef Škvorecký abbozza quasi sicuramente il profilo di Linhartová in Leoncino (p. 120, l’edizione originale è Lvíče: Koncové detektivní melodrama, Praga, Československý spisovatel, 1969), romanzo poliziesco a chiave che nella fiction cela osservazioni e critiche sui retroscena editoriali in un paese comunista. Škvorecký collega la difficile penetrazione dei testi a una mitizzazione in senso divistico dell’autrice, non proponendo naturalmente il riferimento a una star hollywoodiana, bensì a un’attrice comica nazionale degli anni Trenta. Similmente, in un certo senso, fa Ripellino in Praga magica (pp. 13-17), mitizzando l’autrice in una dimensione che è però onirica, quasi fantasmagorica. Mescolando aneddotica e critica letteraria – nel passaggio in questione, infatti, recensisce anche le prose brevi (o “capricci”) di Interanalisi del fluito prossimo, inglobando nel testo una “Notizia di lettura” già pubblicata in calce alla traduzione ripelliniana –, egli racconta di una scorribanda romana in automobile con l’amica Věra, dopo innumerevoli brindisi per un Capodanno in casa del pittore Perilli. Vestita lei di un trench argento (di nuovo!), colore che si specifica addirsi ai sonnambuli, pentito lui di essersi offerto di accompagnarla al palazzo dove l’amica soggiorna e di cui non ricorda l’indirizzo, i due errano in una ricerca disgraziata. Fuori dalla vettura una nebbia spettrale metamorfizza la Città eterna in Praga, dentro
“…Věra cicalava sconnessamente. Il suo dire imitava il ductus dei suoi «capricci», che si vanno costruendo «a vista», come ossessivi garbugli di una dialettica tortuosa e schizoide, tutta ritardi, ritorni, duplicamenti, ossimori, lacune, amnesie, discordanze, incastri di piani difformi, strampalati trastulli grammaticali” (p. 16).
Il bozzetto della scrittrice, calcato qui con un tono ironico come del resto Škvorecký già fa con uno stile obliquamente diverso, si addice perfettamente al clima stralunato della Praga di Ripellino. Di più: diventa lei stessa un personaggio delle sue prose sperimentali. Ciò che Ripellino forse travisa nella scrittrice, proiettando su di essa un proprio stato d’animo, è il sentimento di nostalgia per le terre abbandonate che accomunerebbe entrambi:
“Věra Linhartová, noi, sciame di fantasmi della diàspora, portiamo da un capo all’altro del mondo la nostalgia di questa terra perduta” (p. 13).
Le posizioni della scrittrice sulla propria esperienza di “espatriata” e sul concetto di esilio sono infatti lontanissime dal topos che affonda le radici nella società europea. Inaspettatamente (di rado, infatti, Linhartová si è pronunciata sulla propria vita, men che meno sulla propria opera), nel 1993 accetta l’invito dell’Istituto francese di Praga a partecipare a un convegno e approccia il suddetto tema in un breve intervento dal titolo Pour une ontologie de l’exil, che Kundera definirà “un testo radicale e luminoso” sulle pagine di “Le Monde”.
Nell’intervento, disponibile online nella traduzione di Francesco Forlani e Paolo Trama, viene dissezionata la nozionecipolla “esilio”, spellata strato per strato e denudata fino a dimostrarne l’inappropriatezza. Linhartová individua nella società contemporanea un tipo di esilio “volontario”, condannato come crimine perché non mediato dall’autorità e decisione di chi lo compie, che è in netta opposizione semantica rispetto all’esilio “forzato” nello stato antico e moderno, vissuto dall’individuo come il più grande castigo legislativo. L’esilio volontario può essere certo “subìto”, esperito cioè come condizione transitoria e nostalgica nell’attesa di un ritorno in patria, ma può anche essere “trasfigurato”, ossia una volontà di lasciare la terra dei propri natali per la partenza verso un altrove in continuo divenire, alla ricerca del proprio io. Quest’ultima esperienza diventa effettivamente “esilio” solo se attuata in un paese il cui potere proibisce ai cittadini di lasciarlo liberamente, sarebbe però considerata come normale trasferimento all’estero nelle realtà statali di tipo diverso. È ancora corretto, dunque, parlare di “esilio”? Per la scrittrice la risposta è un no: si tratta piuttosto della primordiale sopravvivenza nell’uomo dell’istinto nomade. Un nomadismo affascinante e allo stesso tempo scomodo per un’Europa sedentaria.
Věra Linhartová è, in questo senso, una nomade. E tuttavia, più che fisicamente il suo nomadismo si esprime appieno letterariamente, passando in primo luogo attraverso la lingua. Nell’intervento afferma:
“Spesso si pretende che, più di ogni altro, lo scrittore non sia libero nei suoi movimenti, perché resta legato alla sua lingua in un vincolo indissolubile. Credo che si tratti ancora di uno di quei miti che servono da scusa a persone timorate e che le riconforta in una vita di cui, per evitare ogni difficoltà, si sono infine accontentate.”
Similmente al conterraneo più celebre Kundera (e prima di lui), arrivata a Parigi Linhartová cambia lingua di scrittura scegliendo il francese, col quale si allena già dai tempi del liceo e che traduce in ceco negli anni Sessanta – fra i titoli, Pierrot mon ami di Queneau nel 1965. La sua produzione francese si compone di volumi letterari di nicchia, spesso accompagnati da immagini d’arte– come Twor (1974), Intervalles (1981), il già citato Portraits carnivores (1982) e Mes oubliettes (1996) – e da pubblicazioni nate dal suo lavoro principale di storica dell’arte, che la porta a occuparsi di Magritte, Antoni Tàpies, Josef Šíma e di argomenti inediti quali surrealismo e dadaismo giapponesi. Sono questi ultimi a traghettarla in un altrove ancora più imprevisto: le terre nipponiche.
La scoperta avviene parallelamente alle esigenze sperimentali della prosa, nella quale, come vediamo già in Interanalisi del fluito prossimo, si esasperano le strutture della lingua tentando di scindere l’io narrante in più voci opposte, maschili e femminili. La polifonia del romanzo dostoevskiano, tipicamente attivata dall’incontroscontro di più personaggi distinti, in Linhartová si svolge tutta nel flusso di scrittura prodotto da un’unica voce, che si scompone fino alla schizofrenia. Gli ambienti attraversati da tale personalità multipla si sintonizzano di conseguenza con questa ricerca: sono spazi kafkiani, quartieri praghesi stregati, carnevali veneziani, frenocomi. Ma le voci dell’io sono espresse tanto liberamente da arrivare all’esaurimento: riconoscono infine la loro diversità, come riconoscono la loro comune provenienza e l’impossibilità grammaticale di rendere contemporaneamente i due aspetti (differenza e matrice comune). Linhartová conclude che il ceco, come del resto il francese, non consentono l’agio di movimento che la sua prosa necessita, quindi indaga una nuova lingua. La studia all’“Institut national des langues et civilisations orientales”, organizza diverse mostre al Pompidou, lavora come ricercatrice a Tokyo fra il 1989 e il 1990 e traduce in francese. Tra i suoi lavori degli anni Novanta, un’antologia di scritti giapponesi sulla pittura dal XI al XIX secolo e il trattato Shōbōgenzō del monaco buddista Dōgen. Perché proprio il giapponese? Secondo le preziose notizie della Richterová:
“Alla base della scelta apparentemente eccentrica si trova un’ipotesi di ordine linguistico ontologico. Věra decide di studiare il giapponese supponendo che esso sia una lingua «non distinta», ossia una lingua che, non distinguendo le persone grammaticali, possa realizzare la comunione di più soggetti in un discorso unico. […] Il problema del«chi parla» è il tema portante di tutta la sua opera” (pp. 64-65).
Per “sua opera” si intende il corpus della produzione letteraria, di critica d’arte e di traduzione, in quanto il suddetto problema della voce parlante viene trattato con mezzi diversi in ciascuno dei tre campi d’azione. In merito all’originale ipotesi linguistica, Linhartová rimane disattesa perché scopre che anziché esser libera dalle costrizioni delle persone grammaticali, il giapponese “ospita rigide strutture corrispondenti a precise gerarchie sociali di tipo feudale”. Anche per questo, forse, il contatto con la lingua si ferma alla traduzione e le sua produzione in prosa s’interrompe.
Per tornare al punto di partenza e chiudere il cerchio, è suggestivo leggere già nel libro d’argento quelle coordinate biograficopicaresche in cui, decenni dopo, si riconosceranno le prime impronte del nomadismo di Linhartová. Parlando di un “deserto”, metafora tanto genericamente esistenziale quanto specificatamente riferita all’instaurazione del regime comunista in Cecoslovacchia, e di un “libretto di vagabondaggio” rilasciato in una sezione speciale a Praga, esse restituiscono la stessa ambiguità
dell’esperienza di “esilio” che l’autrice discuterà molti anni più tardi:
“– Devo solo ancora brevemente e per sommi capi caratterizzare tutta la mia vita precedente: trascorsi il suo primo periodo in un silenzioso raccoglimento nel deserto, gli altri anni furono un periodo di vagabondaggi. […] – E se qualcuno ha dubbi se si possa o no condurre nel nostro tempo vita da vagabondo, gli faccio notare che una sezione speciale del Ministero degli Interni a Praga, sulla Letná, rilascia in particolari giorni un libretto di vagabondaggio e che tutto consiste nel presentarsi al momento giusto e alla dovuta sezione. […] – Le regioni dei miei anni di vagabondaggio in un paesaggio abitato sono pressappoco nella stessa latitudine dei precedenti anni di deserto. – Con questo ho detto tutto l’essenziale della mia vita di prima e possiamo ora riprendere dall’inizio” (pp. 15-16).
Bibliografia
Angelo Maria Ripellino, Notizia, in Věra Linhartová, Interanalisi del fluito prossimo, Interanalisi del fluito prossimo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 261-263.
Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1991 [1973].
Josef Škvorecký, Lvíče: Koncové detektivní melodrama, Praga, Československý spisovatel, 1969. In italiano è tradotto da Bruno Meriggi con il titolo Leoncino, Milano, Garzanti, 1971.
Milan Kundera, L’exil libérateur, su “Le Monde” del 7.05.1994, https://www.lemonde.fr/archives/article/1994/05/07/l-exil-liberateur_3831220_1819218.html [23.09.2020]. L’articolo è presente nella raccolta di saggi Une rencontre, Parigi, Gallimard, 2009. In italiano: Un incontro (trad. di Massimo Rizzante), Milano, Adelphi, 2009.
Sylvie Richterová, Ritratto dell’autrice, in Věra Linhartová, Ritratti carnivori, Roma, Edizioni e/o, 1987, pp. 55-76.
Věra Linhartová, Dům daleko, Praga, Mladá fronta, 1968.
Věra Linhartová, Meziprůzkum nejblíž uplynulého, České Budějovice, Krajské nakladatelství, 1964.
Věra Linhartová, Pour une ontologie de l’exil, in L’Atelier du roman, 1994, n. 2, pp. 127-132. La traduzione utilizzata in questo testo è quella di Francesco Forlani e Paolo Trama: http://rassegnastampabolano.blogspot.com/2010/07/veralinhartovaperunaontologia.html [23.09.2020].
Apparato iconografico
Immagine in evidenza: Tom J. Lewis. Fonte: Books Abroad, vol. 47, n. 1(winter 1973), p. 14.