Paralisi a tre voci: “Figli, figlie” di Ivana Bodrožić

Martina Cimino

 

È il riflesso della sopravvivenza, l’istinto che la natura ci ha donato perché ci allontanassimo da ciò che è marcio e malato. Ma come fare per allontanarci da noi stessi?” (p.2)

 

Il catalogo di Sellerio Editore nel 2023 si arricchisce con la pubblicazione, all’interno della collana Il contesto, di Sinovi, kćeri (“Figli, Figlie”, 2020) di Ivana Bodrožić, autrice croata, già presente nella stessa collana, che ha esordito con Hotel Tito (“Hotel Zagorje”, 2019). La traduzione è di Estera Miočić.

Link al libro: https://sellerio.it/it/catalogo/Figli-Figlie/Bodro/14995

Se a una prima lettura Figli, Figlie sembra un romanzo incentrato sull’identità, man mano che si procede nella lettura ci si accorge quanto in realtà questo tema sia parte di un discorso più ampio di perdita e decostruzione, da iscrivere a pieno nella battaglia transfemminista. Un discorso che verte sul trauma familiare e generazionale nella società croata contemporanea segnata dalla guerra d’Indipendenza Croata tra il 1991 e il 1995. Il titolo, chiaro indice del binarismo di genere che il romanzo desidera superare, è sintomatico dell’importanza del sesso biologico, anche nell’essere figli, e presuppone una certa invisibilità del femminile. Invisibilità che racchiude tutti i personaggi narranti in quanto di sesso femminile e perciò soggiogati da un’educazione che riconosce al maschio un diritto di supremazia.

Il primo è il caso di Lucija, secondogenita relegata a essere sempre meno del fratello Tomislav a causa del suo genere; vedi di non fare la diversa” (p. 37) è il primo monito che deve fronteggiare sin da bambina. Ormai ridotta a corpo immobilizzato dopo un terribile incidente stradale, Lucjia sente e comprende, ma le è negata ogni possibilità di espressione che va oltre un battito di ciglia e l’emissione di suoni gutturali. Il suo corpo non le appartiene, succube com’è di operatori sanitari poco attenti e una madre autoritaria che, nel ripetuto tentativo di prendersi cura di lei, la riduce a quella condizione di proprietà filiale dalla quale non può uscire e di cui sono testimoni solo una camicia da notte e la spazzola in legno che la differenziano dagli altri pazienti. Una condizione che è la stessa di tutta la sua vita e che impregna nel profondo ogni sua azione.

Le sue raccomandazioni erano la misura del mio orizzonte. Dal punto di vista giuridico, dalla mia maggiore età non ero più una sua proprietà, ma ciò nonostante vivevo circondata dalle sue frasi che, una dopo l’altra con un martello di peluche aveva inchiodato ai margini del mio essere sin dai miei primi balbettii.” (p. 77)

Eppure, è in quel corpo paralizzato e pieno di piaghe da decubito che per la prima volta si può erigere una vera difesa dall’oppressione: serrare gli occhi e piombare dentro se stessa. Un atto di resistenza di un sé straziato, colmo di vergogna e di sensi di colpa con cui fare i conti, ma che ora sente in qualche modo appartenerle, nonostante il corpo, il peggiore degli inferni” (p. 43). Un corpo che continua a tradirla, mestruando e ricordandole così quel ruolo di cura, imposto al suo genere, che la rende manchevole allo sguardo esterno. L’unica sua libertà è in quello spazio interiore in cui si inabissa rievocando il proprio passato familiare, amoroso e il suicidio del padre per il peso della guerra, figura depositaria della sua speranza di meritare amore.

A questa dimensione obbligatoriamente privata – non solo a causa della sua condizione – appartiene anche la sua relazione con Dorian, uomo trans che incontra nel periodo precedente la transizione e al cui fianco si scontra con la società conservatrice in cui vivono e che è incapace di considerarlo umano. Della relazione con Dorian ripercorre la bellezza dell’incontro, la scoperta e il disprezzo di sé e dell’altro; infatti, si delinea come una relazione che, per quanto travolgente, è sempre sul punto di cedere a quel diktat, materno e sociale, del binomio uomo-donna che li avrebbe resi accettabili o anche solo visibili. Eravamo due pazzi davanti a famiglie con figli, a corpi scolpiti, all’esigenza di essere un uomo perfetto, una donna perfetta, perfettamente banali.” (p. 73)

La seconda voce, quasi a fare da controcanto alla perdita di identità di Lucija, è infatti quella straziante di Dorian, un diverso, un “invisibile” – per far riferimento al libro di Patim Statovci sempre edito da Sellerio in cui l’autore affronta tematiche analoghe – che sceglie chi essere. È una voce crudele, sempre al limite del silenzio, che racconta di sé quasi come imperdonabile, condannato a condurre un’esistenza nello spazio liminale della propria casa; luogo in cui le sembianze di un corpo che sente non appartenergli prima e le ferite postoperatorie poi diventano reali e percepibili. Ciò che emerge nel monologo è dunque un corpo, considerato non canonico dalla società, in lotta contro se stesso e a lungo demonizzato dallo stesso narratore che, fino all’operazione, ha cercato di costringerlo nelle forme stereotipate del maschile con fasce stringenti per il seno e il vestiario. È un corpo considerato marcio sin dall’infanzia che gli impedisce di sentirsi parte di un gruppo e, nel momento in cui mestrua, anche vissuto come traditore e prigione. Nel cercare di appartenersi, la relazione con Lucija svolge un ruolo di primo piano perché, oltre a legittimare la scelta di un’identità di genere, lo mette davanti al disprezzo della società, primi tra tutti della madre di Lucija e di Tomislav, il fratello che partecipa attivamente alla propaganda omofoba e transfobica.

Tuttavia, è in quella stessa casa corpo, simbolo di oblio del sé e centro resistenziale, che si è generato e continua a generarsi il dolore di entrambi i personaggi. Un dolore che alla lettura sembra eterno, costretto a riproporsi generazione dopo generazione e che condiziona ogni relazione umana nel momento in cui si stabilisce. Infatti, sia Lucija che Dorian si nutrono del senso di vergogna che le famiglie hanno trasmesso loro e si feriscono costantemente, pur tentando di costruire un’intimità che escludesse il resto delle persone.

Non di meno, è al centro di questa riflessione sull’ereditarietà del trauma che Bodrožić sorprende il lettore inserendo un terzo monologo inaspettato: quello della madre di Lucija, una voce solo apparentemente distante dalle altre. Abusata e ridotta al silenzio, anche lei è vittima di quelle stesse dinamiche patriarcali che la relegano in quanto donna alla sottomissione di un padre, un marito e dei suoceri violenti. Dinamiche che poi riversa nell’amore filiale, impedendo a Lucija una vera emancipazione.

Pur scoperchiandone il passato e costruendo una vera e propria genealogia del trauma, Bodrožić non concede davvero un’assoluzione della madre, ma la riconduce al proprio ruolo di donna – talvolta anche ambiguo quando diventa genitoriale –, di chi è stato incapace di autodeterminarsi e costruire per sé una narrazione alternativa ed emancipatoria, ripetendo perciò inevitabilmente ciò che ha imparato e vissuto. Eppure, ricondotta anche lei alla sua dimensione femminile e corporea, l’andamento della narrazione s’invortica su se stesso, mostrando un vissuto pieno di violenza e di vergogna che ha segnato la sua vita e che, conseguentemente, l’ha privata di un’identità oltre il proprio ruolo materno.

Ora è tardi per tutto, e anche se non lo fosse, io non saprei più come, non ricordo più chi ero una volta, prima di tutti loro, non so cosa mi piace, non so in cosa sia brava, non so cosa mi renda felice, e dato che non lo so insisto su quello che sono diventata dopo.” (p. 201)

Con questa terza parte, dunque, Bodrožić svela quella verità, propria di tanta letteratura e anche sua, che rende l’opera più che mai necessaria: procreare è tramandare traumi e instillare colpa, anche quando si crede di compiere un atto d’amore. Un atto che porta con sé la scelta di continuare a esistere in un modo che sia socialmente accettabile, nonostante quanto si è vissuto. Pertanto, la paralisi del corpo, coinvolgendo tutti e tre i personaggi narranti, assume una dimensione metaforica più ampia che plasma una società ancora uguale a se stessa, in cui le dinamiche patriarcali superano anche le differenze generazionali e intrappolano chiunque cerchi di sovvertirle. Una trappola il cui baluardo ancora da scalfire risiede nella famiglia tradizionale.

 

Apparato iconografico:

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